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La zona d'interesse, l'orrore della porta accanto

Questo film è un rumore. Continuo, instancabile, disturbante. Un ronzio sordo, in sottofondo: come un tarlo che divora la coscienza. È un suono inizialmente indecifrabile, poi sempre più chiaro: è il rumore dell'orrore. Quello della porta accanto. A dieci anni da «Under the skin», cult che lo impose all'attenzione del mondo, l'inglese Jonathan Glazer, cineasta per definizione inclassificabile, porta sullo schermo «La zona d'interesse», il romanzo omonimo di Martin Amis, raccontando, complice un'idea potentissima e audace, la vita ordinaria e a tratti idilliaca dei vicini di casa dell'inferno. Ossia Rudolf Höss e la sua famiglia: e la loro grande casa, una villa con un bel giardino, le stanze sempre in ordine, domestiche e baby sitter. E, dall'altra parte del muro, Auschwitz. Il campo di sterminio dove ogni mattina Höss si reca al «lavoro»...

Fortissimo sin dall'inizio, con quel buio infinito dei (non) titoli di testa, terribile e spiazzante, «La zona d'interesse», candidato a 5 Oscar, già vincitore del Grand Prix a Cannes. non racconta solo la banalità, ma anche la quotidianità - e l'indifferenza - del male. I dolci, le ricche colazioni, le feste: le donne parlano di moda, i mariti di forni crematori, E mentre il fumo nero impesta l'aria, i bambini giocano ai carcerieri. Non accade, in tutto il film, nulla di «sensazionale»: e questo, se possibile, lo rende ancora più agghiacciante. più «insopportabile».

L'orrore resta fuori dall'inquadratura, è un'eco, una traccia: se non fosse per la cenere che si deposita (e viene velocemente rimossa) nel giardino, forse diresti (e qualcuno ancora, maledetto, ci prova) che non è accaduto niente... Glazer (che ha nella Sandra Hüller di «Anatomia di una caduta» ancora più che nel protagonista Christian Friedel, il volto finale) maneggia con cura materiale esplosivo, privilegia piani sequenza a macchina ferma, utilizza il concetto di spazio non solo come astrazione ma in senso etico e politico: e gira un film bellissimo e straniante sul visibile (e sulla «memoria» del visibile) e su ciò che è possibile (o ha ancora senso) mostrare, là dove la normalizzazione del genocidio oggi, 80 anni dopo, ha il suono di un aspirapolvere. Monito non strumentale di un buio che non fa parte del tempo ma dell'uomo.

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Anatomia di una caduta, il thriller della coppia e della verità

Basterebbe quell'inizio: con quella musica sparata a mille che non permette nemmeno una normale conversazione, con la voce che si alza - e trema - ma non basta a frenare, e tanto meno a sovrastare, il mai così insostenibile «P.I.M.P.», brano cult del rapper 50 Cent, che invade l'inquadratura, la riempie, la scuote fino all'insofferenza. Basterebbe quella scena - e la curiosa sequenza dei titoli di testa, con le foto degli interpreti da bimbi o ragazzini - per capire che si è aperta la porta del film giusto.

E' notevole sin da subito, «Anatomia di una caduta», la pellicola molto interessante e ben costruita, con cui la francese Justine Triet ha vinto la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes: un film che la 45enne autrice traveste da dramma processuale per farne in realtà una riflessione ambigua e avvincente sulla dissoluzione di una (o della?) coppia.

Teso e tosto dal principio alla fine (la Triet non lo perde mai di vista, mantenendo alta la guardia per tutta la durata), «Anatomia di una caduta», frutto di una sceneggiatura calibratissima, parte da un mistero da svelare: quello della morte di Samuel, precipitato dal balcone della sua casa immersa nella neve. Si è suicidato o l'ha spinto di sotto la moglie Sandra, una scrittrice tedesca? L'unico che potrebbe sapere qualcosa è il figlioletto della coppia, che però un incidente ha reso anni prima quasi cieco...

Intrigante, intenso, scomodo, capace di giocare intelligentemente con il genere per raccontare molto altro (sulle relazioni interpersonali, sul senso di colpa, sui rapporti di forza), il film, che scaricato dalla Francia nella corsa all'Oscar (la Triet ha probabilmente pagato le critiche al governo francese dopo il trionfo a Cannes), è stato però acclamato negli Usa e potrebbe rientrare nelle nomination dalla porta principale, sfuma il côté hitchcockiano con numerosi svelamenti e continui colpi di scena che cambiano di continuo - in un gioco della verità dove il plastico della casa in tribunale non può non riportare alla memoria la tragedia di Cogne - la percezione dello spettatore nei confronti della protagonista: una bravissima Sandra Hüller, in grado di recitare in tre lingue diverse con la medesima intensità. E riflettere insieme allo spettatore sulla fragilità della verità: che forse è solo quello a cui decidiamo di credere.

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