Finalmente l'alba: Costanzo agita lo spettro del caso Montesi
Agita lo spettro del caso Montesi per svelare il dietro le quinte della favola del cinema, lasciando che Alice si avventuri da sola in un Paese delle meraviglie che così meraviglioso non è, il meno riuscito dei film di Saverio Costanzo: che, smarrito in un labirinto di desideri, quello della fabbrica dei sogni, ricoperto di polvere di stelle, gira il controcampo di un mondo fatuo e decadente che dopo l'ultimo ciak mostra la sua faccia più crudele.
E' un romanzo di formazione al femminile, rito iniziatico e di passaggio, «Finalmente l'alba» che ci riporta nella Roma del '53 e della Hollywood sul Tevere, là dove Mimosa, innamorata del grande schermo, fa un provino per fare la comparsa in un peplum: dopo un iniziale rifiuto, la prendono. E' l'inizio di un'avventura incredibile.
Ambizioso ma poco appassionante, costato una cifra monstre (28 milioni di euro), il film che Costanzo ha dedicato a suo padre Maurizio, rievoca il cinema-sogno che fu, ma anche la perdita dell'innocenza di un Paese, legata a quel terribile delitto sulla spiaggia di Capocotta, destinato a sconvolgere l'opinione pubblica. Ma la parabola della protagonista (la giovane Rebecca Antonaci, che si confronta con veri divi americani come Lily James e Willem Dafoe), sa di già visto, mentre la realtà si confonde con la finzione (e viceversa) in un dialogo tra presente e passato che però resta in superficie.
Hungry hearts, il film-catarsi di Costanzo
Prende in prestito il titolo a una canzone di Bruce Springsteen (ma fa quasi scattare l'applauso quando spara a tutto volume il tema di <Flashdance>...) e dice di essersi ispirato a Cassavetes (<al suo approccio un po' spregiudicato, ribelle>): ma di fatto è decisamente più bravo che presuntuoso. Anche perché giunto al quarto film, Saverio Costanzo dimostra di possedere una spiccata e per nulla banale personalità sia dal punto di vista formale che da quello narrativo, realizzando con <Hungry hearts> una pellicola soffocante e opprimente, disturbante e <malata>: un insolito approdo, o se preferite un'isola (in)felice, in un cinema italiano che al contrario cerca a ogni piè sospinto (e ad ogni costo) di piacere.
Partito benissimo - complice una ripresa a macchina fissa claustrofobica (che poi è la condizione di tutto il film), agitata e divertente, con i due protagonisti (ancora perfetti sconosciuti) che cercano di uscire dal bagno del ristorante dove sono rimasti chiusi -, <Hungry hearts>, che trasforma in breve tempo la spensieratezza iniziale in paranoia metropolitana fino a toccare atmosfere da horror dell'anima, racconta a <strappi> (con quei quadri separati da dissolvenze al nero che raccontano molto anche senza dire) la storia di una giovane coppia - lui americano e lei italiana -, che aspetta un bambino. La madre però sin da subito vive in maniera ossessiva il rapporto con il piccolo: e convinta di fare il suo bene non gli dà da mangiare carne e non lo espone praticamente mai alla luce del sole...
In una New York mai così poco attraente, un film che sta sempre addosso ai suoi personaggi - prima privilegiando inquadrature molto strette, poi attraverso riprese deformate - in un crescendo angosciante in cui il regista italiano coglie l'incubo molto contemporaneo di una <purezza malata>, lavorando di nuovo su temi a lui cari come la trasformazione del corpo, il rifiuto del cibo, l'isolamento, l'autolesionismo.
Tratto da <Il bambino indaco> di Marco Franzoso, girato in modo istintivo per non avere il tempo né la voglia di giudicare nessuno dei suoi personaggi, <Hungry hearts> è un film-catarsi (<volevo guardarmi con più amore e tenerezza>, ha spiegato Costanzo) potente e spigoloso dove i due bravissimi interpreti principali – Alba Rohrwacher e Adam Driver (divo della serie tv <Girls> e prossimo protagonista del nuovo <Guerre stellari> e dell'ultimo film di Scorsese) -, entrambi premiati con la Coppa Volpi a Venezia, diventano i complici perfetti di un regista che a ogni inquadratura sembra volersi (e forse volerci) mettere alla prova.