2024, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2024, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Tecniche di seduzione: Parthenope, il tempo, la bellezza e il desiderio

C'è l'odore degli amori morti e una città «dove è impossibile essere felici». E una ragazza, «bella e indimenticabile» (come chi la interpreta, Celeste Dalla Porta, esordiente, nipote del fotografo-mito Ugo Mulas, un'assoluta scoperta), che vorrebbe avere sempre la risposta pronta e, come la sua Napoli, non si vergogna di niente. E poi sì, c'è lei, come sempre: la vita. Che è enorme, sconfinata, grande e profonda più del mare; è ovunque, la vita, sai? Ti ci perdi dappertutto.

E' un film sulla bellezza, sul desiderio, «Parthenope»: e sul dolore. E sul tempo, ovviamente. Su tutto quello che resta, su quello che hai perso, su quello che avrebbe potuto essere, ma anche su quello che è stato, che hai visto, che hai (o ti ha) toccato. E anche se comincia nel 1950 e finisce nel 2023, è più di tutto un film sulla giovinezza, quella che forse non hai vissuto ma avresti voluto vivere: non solo età, ma concetto, illusione di eternità, idea, utopica promessa.

Atteso come il film caso dell'autunno, già lungamente applaudito sin dalla prima mondiale a Cannes, va oltre il ritratto (e il mistero) di una giovane donna libera, capace di sopravvivere anche alla sua stessa (grande) bellezza, che potrebbe fare qualunque cosa ma sceglie di essere «semplicemente» se stessa, per fare degli amori (quel «triangolo» iniziale che ricorda un po' i dreamers bertulucciani) e degli incontri della sua protagonista un languido affresco antinarrativo di pura, invincibile, seduzione, dove i ralenti dolci come una carezza, i primi piani-mondo, i movimenti di macchina lenti e calibratissimi, finiscono per creare un incantamento struggente in cui il piacere degli occhi si scioglie nelle note incessanti del «Bolero» di Ravel.

L'armatore Achille Lauro, il colera, la camorra, la protesta studentesca, San Gennaro, Sophia Loren (o meglio una sorta di sua caricatura), il Napoli di Spalletti: in una cavalcata dove la Storia, evocata, resta però sempre sullo sfondo, «Parthenope» si veste (sin dal principio quando di una vecchia carrozza si fa un letto per la prossima nascitura) da racconto magico, inseguendo, tra gli orrori e la meraviglia di una città da cui, prima o dopo, bisogna fuggire, la bellezza spaccacuore di sequenze colme di fascino e di poesia.

Poi qualcuno dirà che il regista di «E' stata la mano di Dio» (di cui questo film è una sorta di immaginario controcampo femminile) si piace troppo e sicuramente non tutto è sempre e ovunque intonato: ma lo straripante talento visionario di Sorrentino, il ritmo del racconto dettato dal montaggio «sentimentale» del reggiano Cristiano Travaglioli (uno dei fedelissimi dell'autore napoletano), l'alchimia tra gli interpreti (oltre a Silvio Orlando, Stefania Sandrelli, Gary Oldman, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Daniele Rienzo e molti altri anche un bravissimo Dario Aita, caro al Teatro Due) esaltano un film che conosce il profondo segreto del piacere degli occhi.

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Lacci, quell'ipocrita e tossico stare insieme

Ha ragione Daniele Luchetti: «Sbagliano tutti». I mariti, le mogli, persino i figli. E, a volte, pure i registi. Perché è pur vero che non è difficile riconoscersi nel lessico familiare di «Lacci», nei suoi rimorsi, nei suoi rancori: il problema, se mai, è quello di trovare entusiasmo nel rapportarsi a un film che alla fine è più borghese del contesto che racconta e al tormento un po’ ipocrita di un cinema che non perdona l’altrui disagio ma non sa dare un nome e un senso al proprio. Proposto, in modo sin troppo audace, in apertura dell'ultima Mostra del cinema di Venezia (un onore-onere di cui la pellicola ha beneficiato solo in parte, non essendo, per caratteristiche proprie, particolarmente adeguata al compito), l’ultimo lavoro di Luchetti, altrove regista sensibile e ispirato («Il portaborse», «La nostra vita»), fatica a conquistare un pubblico che già ha i problemi suoi, figurati se ha voglia di accollarsi anche quelli degli altri. Così, se al minuto 37 cominci a guardare l’orologio, provando un certo fastidio per la concezione teatrale, i dialoghi sin troppo letterari (al limite del sentenzioso) e quell’indugiare, non particolarmente utile, sui primissimi piani, è abbastanza evidente che qualcosa non è scattato. E che difficilmente scatterà dopo. Ritrovato Domenico Starnone (l’autore del romanzo di successo da cui è tratto il film) a 25 anni dalla fortunata esperienza de «La scuola», il regista di «Mio fratello è figlio unico» mette in scena l’anatomia di una coppia (e l’autopsia di un matrimonio) tra momenti di trascurabile infelicità scanditi in due movimenti temporali: i primi anni ‘80, quando Aldo, due figli piccoli e un lavoro in radio, confessa alla moglie Vanda che si è innamorato di un’altra donna (una giovane e bella collega), e il presente quando i due, nonostante tutto, sono ancora insieme. Efficace quando più che alle parole («per stare insieme bisogna parlare poco») si affida ai gesti e all’espressività di sentimenti altrimenti troppo caricati ed esposti (quelle litigate mute, viste dietro a un vetro di imbarazzato silenzio), «Lacci», poco aiutato da un cast peraltro prestigioso (da Luigi Lo Cascio ad Alba Rohrwacher, da Silvio Orlando a Laura Morante: ma la più convincente e in parte è la giovane Linda Caridi), coglie con una certa verità la debolezza, il cinismo e la vigliaccheria maschile (e l’incapacità di sottrarsi dalla propria quotidianità), risultando a tratti però presuntuoso, nonché affaticato nel rincorrere le conseguenze di un amore tossico che segna tutti i personaggi. Vittime di una riconciliazione che è un atto di masochistica lealtà: moralmente corretta, ma profondamente disonesta.

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