Freaks out, gli X-Men all'amatriciana nella Roma città aperta
Le persone normali non hanno niente di eccezionale: forse per questo Gabriele Mainetti, dopo il successo clamoroso di «Lo chiamavano Jeeg Robot» (film-fenomeno di qualche anno fa) resta dalla parte degli emarginati, dei diversi, degli strani, degli «imperfetti», degli «altri». Girando un film di sconfinata ambizione che cerca la cifra di Tim Burton ma, privo dell'ironia di un «Bastardi senza gloria», finisce piuttosto per sembrare una versione de noantri degli X-Men. Dispiace perché l'attesissimo «Freaks out» di coraggio ne ha da vendere e non solo le dimensioni della produzione sono inedite nell'ambito del nostro cinema, ma anche il desiderio di smarcarsi da uno sguardo omologato, di intraprendere la strada di un genere qui da noi pochissimo frequentato, rivisto in senso autoral-popolare e forse in grado di intercettare i millenials. Ma l'epica avventurosa di questa favola fantasmagorica che si muove tra citazioni altissime (da «Roma città aperta» a «Il mago di Oz»...) fatica, nell'attraversare la tragedia della Storia, a camminare alla pari delle proprie aspirazioni, coltivando uno stupore che non riesce ad appassionarci. Ambientato nella Roma occupata del '43, il film racconta di quattro giovani circensi dai poteri speciali che cercano ovunque il proprietario del loro piccolo circo, catturato dai tedeschi perché ebreo... Visionario ma bislacco a livello narrativo, «Freaks out» non bada a spese dilatando però sin troppo (la battaglia finale non finisce mai...) i tempi: e alla fine l'azione prevale sul divertimento.