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Un eroe, neorealismo all'iraniana nell'era buia dei social

Esci e pensi: De Sica. Anzi, di più: «Ladri di biciclette». Se una lezione la devi imparare tanto vale che la impari bene: e non si può dire che l'iraniano Asghar Farhadi, premio Oscar per «Una separazione» e «Il cliente», non conosca alla perfezione le dinamiche e le implicazioni (intime, sociali, politiche) del nostro amato neorealismo. Che applica con talento aggiornandole all'epoca 2.0 nel copione scritto a regola d'arte su cui si sviluppa, non senza sorprese, «Un eroe», ennesimo apologo morale di un autore capace di leggere in profondità - fra le trappole dell’impasse burocratico di un Paese che sembra sempre fermo al punto di partenza - contraddizioni umane e universali. Su un tema (quello dell’eroe «fasullo») già molto sviscerato dal cinema occidentale, Farhadi costruisce una riflessione sui media - che ti usano e a loro volta si lasciano usare - e sull’inferno dei social, termometro falsato di una «verità» (vox populi vox dei) inalienabile solo per principio, ma in realtà rimasticata, rivista, «truccata». Privo di sottofondo musicale, volutamente asciugato anche nella fotografia, «Un eroe», Grand Prix a Cannes 2021 (ad ex aequo con «Scompartimento n. 6») e rivale tosto per il nostro Sorrentino nell'Oscar race, racconta di un uomo, Rahim, che esce dal carcere - dov’è detenuto a causa di un debito - per due giorni di permesso. Se non vuole tornare in cella deve convincere il suo creditore a ritirare la denuncia: ma quello vuole i soldi che gli spettano. Allora Rahim, visto che la sua compagna ha trovato per strada una borsa con dell’oro, prima cerca di venderlo, poi si decide - forse più per convenienza che per un rigurgito d’onestà - a restituirlo. Diventando così l’eroe del giorno... Consapevole che non esiste luce senza ombra, che non ci sono buoni o cattivi ma solo persone che cercano, faticosamente, di sopravvivere (anche alle proprie bugie, alle proprie debolezze), il regista iraniano trasforma il suo impulso etico in una sorta di giallo esistenziale, celando, anzi «negando» allo spettatore, l'evento motore dell'azione che (come sempre nei suoi film) resta fuori campo, in modo che il pubblico non sia passivo rispetto al film che vede, ma al contrario attivo, dubbioso, pensante. Complicando inoltre, minuto dopo minuto, la vita dell'umano e quindi fatalmente imperfetto protagonista per contrapporre la dignità alla manipolazione, l’onore alla convenienza, l’integrità (e l’amore paterno) allo sfruttamento del dolore. Perché a chi perde il rispetto per sé non può bastare quello degli altri.

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2017, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2017, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Il cliente, le profonde crepe del palazzo della morale

Ha l'aspetto di un implacabile thriller esistenziale giocato tra realtà e finzione (con l'artificio dichiarato al debutto e il sottotesto, insinuante di <Morte di un commesso viaggiatore>), ma più di tutto è un dramma etico che apre crepe profonde nel palazzo vuoto della morale, <Il cliente> dell'iraniano Asghar Farhadi, uno che un film non lo sbaglia nemmeno per scherzo. Traumatica e crudele riflessione sulla natura umana e – in particolare – sulla violenza che, in un modo o nell'altro, ci appartiene e di cui non siamo capaci di gestire le atroci conseguenze, la pellicola, che a Cannes ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura e quello per il migliore attore (Shahab Hosseini, interprete feticcio di Farhadi), racconta, con un copione a orologeria, di Emad e Rana, una coppia che, a causa di un cedimento strutturale del condominio dove abita, è costretta a trasferirsi in un altro appartamento. Lo stesso dove poco dopo la donna viene aggredita da un uomo che forse sta cercando la precedente inquilina. Rana è sotto choc: mentre Emad pensa solo a come farsi giustizia...

In un Paese dove lo Stato è assente, e la giustizia è una questione privata a cui solo l'umiliazione pubblica sembra potere dare ristoro, Farhadi (<Una separazione>, <Il passato>), triplicato lo spazio scenico, osserva - seguendo la linea frastagliata di fratture anche interiori -, l'implosione di un amore, il crollo morale di un mondo che, anche se avrebbe i mezzi culturali per respingerla, è accecato dalla rabbia, finendo per rivelarsi peggiore persino dei suoi stessi carnefici. Messa in scena la lacerante commedia della vita, il regista iraniano fa del suo borghese piccolo piccolo che recita Miller un personaggio da tragedia greca: nessuno potrà salvarlo dal fantasma della colpa; abbandonato e inutile come quel palazzo che si sta sbriciolando, metafora di un'epoca e di un Paese.

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