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Aquarius, la memoria dei luoghi come forma di resistenza culturale

E' l'ultimo baluardo contro la deriva di un mondo dove i morti vengono dimenticati, i palazzi abbattuti e il senso di ciò che è stato smarrito, buttato, perso per sempre. E' un simbolo, è un emblema: ma, più di tutto, è una donna. Una di quelle di cui non farete fatica a innamorarvi: o a rimpiangere di non avere incontrato prima.

E' un bellissimo personaggio femminile quello che si staglia con forza in <Aquarius>, opera seconda, interessante e coinvolgente, del brasiliano Kleber Mendonca Filho. La storia di Clara (una grande Sonia Braga, che ha la stessa età, e la medesima voglia di guardare in faccia la vita, della sua protagonista), unica residente rimasta del condominio davanti al mare dove abita da sempre: capitano di una nave fantasma, come l'anziano di <Up> si rifiuta di vendere e di andarsene, nonostante le pressioni e le minacce più o meno velate della ditta di costruzioni, i consigli degli amici e la perplessità dei suoi figli.

Un film intriso di saudade per un passato oggi divorato da un presente senza scrupoli, una pellicola che il regista trasforma in una forma di resistenza culturale: dove la memoria degli oggetti e l'importanza dei luoghi del proprio vissuto diventano le armi per affrontare un'attualità in cui è sempre più difficile riconoscersi. Ed ecco che così un vitale ritratto di signora, girato con stile informale (è una pellicola che ti tira dentro, che riduce al minimo la distanza tra schermo e spettatore), finisce per assumere anche la veste di film politico: in cui, fuori da quella bella casa piena di libri e dischi in vinile, un Brasile non domo denuncia la sua faccia peggiore, quella della speculazione edilizia, del nepotismo e della corruzione.

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Inside out, tu chiamale se vuoi emozioni

I pensieri sono un treno (con tanto di vagoni), il subconscio una prigione di massima sicurezza, la memoria a lungo termine un labirinto inestricabile pieno di sfere colorate: e per il sacrificio di un amico immaginario ci si può pure commuovere... Salutato da un boato all'ultimo Festival di Cannes, <Inside out>, il nuovo fortunato film della Disney/Pixar, entra nella testa di una ragazzina di 11 anni per dare voce e corpo (è proprio il caso di dirlo) alle emozioni. Non prima però di avere regalato una buffa e irresistibile (oltre che volutamente caricaturale) fisicità ai sentimenti. Diretto da Pete Docter (quello del capolavoro <Up>), <Inside Out> è il cartoon made in Usa più complesso e ambizioso da parecchio tempo a questa parte: un'avventura (costata tra una cosa e l'altra 6 anni di lavoro) spesso astratta (a tratti persino cubista...) che sposa un punto di vista assolutamente originale affrontando con ironia il mistero della mente umana.

Cosa mai passerà per la testa di Riley? Tu chiamale se vuoi emozioni: c'è Gioia, una super ottimista dai capelli blu; Tristezza, con il maglione a collo alto; Paura, naso lungo e papillon; Disgusto, le ciglia lunghe di chi se la tira e Rabbia, una specie di mini Gabibbo vestito da impiegato...

Immaginifico e spiritoso, decisamente rivolto più agli adulti che ai bambini, <Inside out> riesce nell'impresa di dare forma all'immateriale, scrutando nell'io incerto di grandi e piccini, tra rischiose iniziative (come quando cerca di cogliere figurativamente il senso di un'allegoria) e tocchi di humor liberatorio. Celebrando (non solo per ridere, stavolta) la grande rivincita della tristezza, la sua riabilitazione: perché per ricominciare a essere felici serve pure quella.

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