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Un giorno di pioggia a New York: se Woody crede ancora all'happy end

<La vita reale è per chi non sa fare di meglio>.

La poteva girare solo lui – e chi altri? -, uno che ama il cinema e i vecchi film, e crede ancora, fosse anche disperatamente come un qualsiasi di noi, nell'happy end, una commedia così: senza ombrello e senza cravatta, sofisticata eppure fresca (merito anche degli interpreti: giovani, carini, scelti molto bene), romantica e sincera. Una favola con momenti di squillante verità (la confessione della madre del protagonista è un climax inatteso e moralmente importante, sottolineato anche stilisticamente dall'inesorabile avvicinarsi della macchina da presa), l'ultima, boicottatissima e ostracizzata, prova di Woody Allen che, travolto e messo al bando negli Usa (dove il film non è ancora uscito) dal ciclone #MeToo, cerca consensi nella più tollerante Europa, scoprendo una vena felice nel suo essere non banalmente uguale a se stesso, nel dovere di ribellarsi a una monotona e pretestuosa adeguatezza, nel riconoscersi in chi ancora non ha scelto chi essere, in attesa che la bella moretta arrivi puntuale all'appuntamento che non gli abbiamo mai dato.

C'è molto, moltissimo, dell'Allen pensiero in <Un giorno di pioggia a New York>: una coppia che va in crisi, il metacinema, il sottofondo jazz, la critica agli intellettuali, l'ebraismo, la vacuità della celebrità, le (auto)citazioni (come un Empire che si vorrebbe in bianco e nero...), il gusto per la battuta colta, la Grande Mela. Ma rispetto ad altre prove più opache, l'84enne regista, sganciato dall'obbligo di cercare una risata fragorosa, qui sembra più a suo agio a confrontarsi – per interposta persona – con un mondo a cui sembra volere dare un'altra possibilità.

Immerso nella fotografia volutamente irrealistica e accentuata del nostro Vittorio Storaro, che vira tutti gli interni ai colori del crepuscolo, riproducendo luce e riflesso di un tramonto perenne e ideale, il film racconta la storia di una giovane coppia di fidanzatini che parte per New York dove lei, la bionda Ashleigh, deve intervistare per il giornale del college un grande regista. Il suo ragazzo, Gatsby, decide di farle trascorrere un weekend indimenticabile, ma le cose per entrambi si complicheranno presto...

Da una parte l'inutilità snob dell'upper class, dall'altra le miss sorriso di vattelapesca che ancora si sciolgono (per avere qualcosa da raccontare ai nipotini...) di fronte ai miti di una fragile Hollywood: ma più che la critica sociale o di costume, Woody stavolta rende centrali le ansie del suo giovane protagonista (il lanciatissimo Timothée Chalamet, molto efficace), un <idiota speciale> non particolarmente bravo a baciare, giocatore d'azzardo fortunato e fumatore incallito, una passione per i film classici, i piano bar e i vinili (magari quelli di Irving Berlin), molto ben scritto nel suo ritrovarsi senza né arte né parte, inattuale e anacronistico, eppure consapevole di non volere quello che gli altri vogliono per lui. Brillante e imperfetto come forse solo lo stesso Allen sa essere, mentre, guardando a <L'ora di New York> e a <Lo sceicco bianco>, raggiunge la maturità di chi ha capito che si vive una volta sola: <e una volta basta se trovi la persona giusta>.

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Café society: malincomico Woody nei romantici '30

La persistenza dell'amore. Che è nato ieri, ma bussa senza invito anche alla porta socchiusa dell'oggi. Come una foto d'epoca sul comodino impolverato della nostalgia: che è mai più, eppure sempre. Lo ha girato il Woody Allen più <malincomico>, un saggio 80enne che sa che <i sogni restano sogni> (già, proprio come al cinema...) e <il sentimento non corrisposto fa più vittime della tubercolosi>, il film più onestamente romantico di questo inizio di stagione: brindando a lume di candela ai cuori infranti, là dove l'amore perseguita chi non può farne a meno, fantasma della memoria di una vita che, parafrasando Shakespeare, <sembra una commedia scritta da uno sceneggiatore sadico>.

Debutto nel digitale di Allen, <Café society> ricostruisce in modo fiabesco l'Hollywood ruggente degli anni '30: lì dove arriva, in cerca di fortuna alla corte dello zio Phil, potente agente dei divi, il giovane Bobby. Che, attratto dallo show-biz, spalanca gli occhi davanti ai villoni delle star, ma viene conquistato dalle semplicità profonda di una segretaria, Vonnie: è amore. Sarebbe tutto perfetto se non fosse che la ragazza è innamorata (anche) del datore di lavoro di entrambi: lo zio Phil...

Elegantissimo (con quei movimenti di macchina dal fuori al dentro...), molto curato, divertente (la famiglia ebrea di Bobby è discretamente uno spasso) seppure col magone scritto sulla faccia di chi perde anche quando vince, la pellicola passa dalle porte girevoli del sentimento, raccontando l'età del jazz e dell'innocenza, quando illudersi, forse, era più facile.

Prima collaborazione dell'autore di <Manhattan> col nostro Vittorio Storaro, che vira in ocra d'antan l'Hollywood che fu distinguendola anche cromaticamente all'amata New York dove è cresciuto il regista, il film (che ha inaugurato lo scorso maggio il Festival di Cannes) è tra i migliori dell'ultimo Allen, anche se a volte sembra mancargli il colpo sotto, il guizzo che lascia a bocca aperta. Ma tra prostitute debuttanti, gangster ebrei convertiti al cristianesimo (<conviene: c'è la vita eterna>...) e intellettuali comunisti che non riescono a fare ragionare i rumorosi vicini di casa, è difficile non stare nella squadra di Woody, dalla sua parte. Che è sempre magistrale nella messa in scena come nella direzione degli interpreti: tra i quali brilla e seduce in particolare Kristen Stewart, bravissima. Una che dal vivo scompare come una scatoletta di carne in scatola al supermercato, ma sullo schermo se li divora tutti.

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