Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi

Anselm, l'arte e l'artificio

L’arte e l’artificio: negli sconfinati atelier che diventano set, teatri di posa, l’immagine moltiplica se stessa. Cerca e si fonde continuamente in un altro punto di vista, come una matrioska di idee dove il video dialoga e si mescola con la fotografia, la ricostruzione con la testimonianza, l’elaborazione con il reperto “storico”. Forse perché anche il cinema altro non è che un caos delimitato, recintato nei quattro angoli di uno schermo: contenuto e “costretto” a fatica, abbastanza per diventare, agli occhi nostri, agli occhi di tutti, dipinto, opera, soluzione.

Nato come lui nella Germania anno zero, quella, devastata, del ‘45, la generazione post inferno che, cercando un altrove, si caricò sulle spalle lo stigma di colpe altrui e il tormento di fantasmi comuni, Wim Wenders coglie l’essenza, sconfinata e spregiudicata, del coetaneo Anselm Kiefer, gigante dell’arte contemporanea che ammira e in cui si riconosce (anche in questo caso, immagine dentro l’immagine...) da sempre. Un’affinità elettiva che il regista tedesco restituisce nella profondità di un (ri)tratto non didascalico e nemmeno agiografico, istantanea di un uomo che, conservata dentro di sé la meraviglia del bambino che è stato, è in perenne e costante cammino, non in fuga eppure per sempre “bandito”.

L’arte, la mitologia, la riflessione sulla memoria e sulla Storia: attraverso tre età, in un non banale processo di identificazione (Kiefer bambino è interpretato dal nipote del regista, Kiefer giovane dal figlio dell’artista, mentre il Kiefer di oggi è naturalmente se stesso), Wenders, tornato in auge anche nel cinema di fiction grazie al grande e recente successo di «Perfect days», gira un documentario affascinante che, nel corso del tempo, ricostruisce, come un’enorme installazione, il talento multiforme di un artista coraggioso e provocatore (la serie di foto col saluto nazista per protestare contro l’oblio...), accusato ingiustamente in passato di essere un reazionario e invece capace di concepire una libreria dove conservare la “pelle” del mondo.

L’autore raffinato di doc come «Pina» e «Il sale della terra» (con Salgado) in «Anselm» (anche in versione 3 D) mette mano alle foto d’epoca, ripropone interviste in vecchi televisori, usa la materia, la manipola e ne fa altro: così, l’interpretazione dell’epica artistica di un visionario diventa arte a sua volta. Là dove l’essere è parte fondamentale del nulla. E - come Kiefer insegna - viceversa.

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Adesso è adesso: i Perfect days di Wenders

Ascolta musica americana nelle vecchie cassette, usa ancora una macchina fotografica col rullino, legge libri che compra in edizione economica, va in bicicletta, non ha la tv né la lavatrice e fa sogni in bianco e nero. E nonostante tutto trova modo e tempo di accennare un sorriso, anche quando magari gli scappa la lacrimuccia. E' analogico e vintage, con quel 4/3 che racchiude nello schermo un piccolo mondo, l'ultimo, poetico, film di Wim Wenders, bella sorpresa, perché inaspettata e imprevista, di un amico ritrovato, cineasta mito dai '70 ai '90, poi, a parte alcuni bellissimi documentari, smarrito al grande cinema.

Che invece qui, tornato in Giappone a quasi 40 anni da «Tokyo Ga», in una città che lo affascina da sempre, schiaccia play ogni mattina all’alba su «The House of the Rising Sun» degli Animals per raccontare i «Perfect days» di un meraviglioso antieroe, un addetto alle pulizie dei bagni pubblici. La sveglia all'alba, il lavoro umile svolto senza mai lamentarsi, la pausa pranzo al parco, il bar. Un uomo solo, ma non disperato, attento ai dettagli, alle piccole cose e allergico ai grandi discorsi. Tanto che Wenders, tra Lou Reed e Janis Joplin, spende più canzoni che parole (il primo dialogo è dopo 12 minuti), trovando sin da subito però la cifra e la delicatezza giusta, giocando tutto sulle lievi increspature di una routine solo apparentemente banale, fessure e crepe dove si fa largo la luce, in un lento svelamento del suo protagonista, interpretato dallo strepitoso Kôji Yakusho, Palma d'oro per il miglior attore all'ultimo Festival di Cannes.

Un film gentile, «Perfect days», zavattiniano, con tocchi alla Jarmusch e alla Kaurismaki, tenero e malinconico. Un piccolo grande film sull'essenziale: un'ode alla semplicità, ma anche alla grande dignità di chi, tagliati i ponti col passato, continua a guardare un presente che cerca di rendere più pulito, più lindo (e più vero) con innocente ottimismo. Forse perché sa che «adesso è adesso».

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Papa Francesco, il rivoluzionario sorridente che strego’ Wenders

E' il rivoluzionario deciso a farsi ascoltare da un <mondo sordo>, il pacifico guerriero che combatte la globalizzazione dell'indifferenza, il carismatico leader politico di uno Stato minuscolo che conta però su milioni di - fedeli - sostenitori. E, più di tutto, <Un uomo di parola>. Lo stesso che a chi si accanisce a costruire muri, dice: <Fate ponti, piuttosto>.

In nome del Papa re (degli ultimi, degli esclusi, dei rifiutati), Wim Wenders racconta, come nessuno ha fatto prima, un ribelle chiamato Francesco: l'apostolo dei giusti arrivato dalla fine del mondo, il servo di Cristo che viaggia in utilitaria e  inizia ogni giornata con un sorriso. Un documentario, <Papa Francesco. Un uomo di parola> - nato grazie all'iniziativa di Solares, fondazione parmigiana  -, in cui il santo padre si rivolge direttamente al pubblico  spiegando la sua idea etica del mondo.

La difesa del lavoro, la forte spinta ecologista, la lotta contro la cultura dello scarto,  lo <scandalo> della povertà, la pedofilia, il cambiamento che deve partire dall'interno: messo di fronte ai temi più urgenti e scottanti dell'oggi, il Papa non si tira indietro cercando quasi un dialogo immaginario (ma a senso unico) con lo spettatore. Wenders si fa piccolo davanti a Bergoglio, che in un certo senso se lo <mangia>: più che un film sul Papa, un film <del> Papa. Di cui il regista de <Il cielo sopra Berlino> celebra l'enorme peso sociale montando insieme vari estratti dei suoi discorsi pubblici, ma anche attraverso (è il rischio più grande – e meno risolto - che si prende il film) un parallelo con San Francesco, gran visionario alla perenne ricerca, come il Papa che porta il suo nome, di un mondo più solidale, equo, finalmente in pace.

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