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Illusioni perdute, la straordinaria attualità di Balzac

‌‌‌L'avventura della bellezza in un mondo marcio: ma è l'800 divorato dall'oscenità del cinismo descritto da Balzac o piuttosto sono i giorni nostri? Fatta emergere con passione l'attualità prepotente e viscerale di uno scrittore immortale, il francese Xavier Giannoli (spesso sottovaluto: andate a rivedervi «A l'origine») rilegge in un film ricchissimo ma mai sfarzoso le «Illusioni perdute», uno dei «testi sacri» della grande letteratura francese, cogliendone, nell'universalità dei temi, lo spirito più contemporaneo. Raffinata nella ricostruzione ma mai inerte né illustrativa o calligrafica, la pellicola, sospesa tra spaccato d'epoca e romanzo di formazione, racconta con l'aiuto della voce fuori campo di uno dei protagonisti (l'alter ego dello scrittore) la vicenda umana del giovane Lucien, tipografo dalle scarse possibilità, che parte per Parigi con la bella nobildonna di cui è l'amante e l'ambizione di imporsi grazie alle sue poesie: scontrandosi però con la crudeltà di una capitale che ha costruito la Restaurazione sulla logica del profitto e di un liberalismo già senza regole, nei giorni in cui «il denaro era la nuova aristocrazia e nessuno voleva tagliargli la testa». La macchina del fango, lo scontro tra classi, la corruzione, il desiderio, frustrato, di elevarsi socialmente, l'assenza di etica, le fake news: in quel passato in cui affonda le radici (e gli artigli) anche il presente, Giannoli, tra editori analfabeti che confidano che l'ananas ci salvi dalla poesia e prezzolati venditori di pettegolezzi sedotti dal successo, sprigiona la forza di un cinema che sarebbe ingiusto e fuorviante definire (o liquidare come fa qualcuno) «de papa», quando invece lo stile e la narrazione classica esaltano, grazie a un efficacissimo montaggio (oltre 2 ore e 20 che passano senza fatica) e a uno sguardo che si nutre della bellezza degli oggetti (tra fiumi di champagne e di inchiostro), la traduzione per immagini di un testo servito con gran talento da un gruppo di attori e volti formidabili (a parte il protagonista Benjamin Voisin, molto bravo, Cécile de France, Vincent Lacoste, Gerard Depardieu e il regista Xavier Dolan, per citarne solo alcuni) del cinema francofono. Interpreti ispiratissimi della commedia umana, in un mondo dove, ieri come oggi, tutto è miseramente in vendita.

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Matthias & Maxime, il bacio di Dolan

È una crepa che si apre sul muro, che eri sicuro che il giorno prima non c'era: come un quadro che cade, che mica avvertono i quadri quando cadono, non chiedono mai il permesso. Succede e basta. E seppure accada nel regno dell'impossibile - il cinema -, dove tutto è finto (così tanto da potere diventare incredibilmente vero), a kiss is just a kiss come cantava Sam. Anche se il bacio è finto, imposto, dovuto, soprattutto non visto, come impone il lampo del narratore. Ma è pur sempre un bacio. Qualcosa di tremendamente personale che si porta dentro il fascino di una rivoluzione. Smessi i panni dell'enfant prodige che ormai cominciavano, non solo per una questione anagrafica, a stargli stretti, il 31enne Xavier Dolan, sopravvissuto a un flop clamoroso (il pasticciato e stroncatissimo «La mia vita con John F. Donovan»), torna nella sua comfort zone, alla sincerità degli inizi, al talento spontaneo e cristallino, alle ossessioni abituali da replicare all'infinito: vero, quelle che erano le cose fichissime dei film precedenti qui lo sembrano meno, ma il suo «Matthias & Maxime», accolto da lunghi applausi l'anno passato a Cannes e ora lanciato on demand (ma il 7 luglio sarà all'arena dell'Astra), è un melodramma emotivamente intenso, pensato volutamente in piccolo per non sacrificare all'estetica l'equilibrio. L’autore canadese che ci aveva conquistati con «Mommy» racconta di due amici dall'infanzia, Matt, avvocato in carriera, e Max (lo stesso Dolan, con vistosa voglia sul volto), barista che ha deciso di emigrare in Australia, che - dopo essersi scambiati un bacio per finta in un cortometraggio amatoriale - scoprono improvvisamente di amarsi... Romantico e teatrale, a tratti anche verboso, il film ha belli strappi e conosce la difficoltà di dare una forma a un sentimento, quando è più difficile starci dentro. Dolan è bravo a rappresentare il disagio, l’imbarazzo, l’impaccio. la rabbia: e tra famiglie disfunzionali e desideri in itinere, cerca di evitare il rischio di girare un «Chiamami col tuo nome» in sedicesimo. Al di là dei cliché lo sguardo è ancora limpido, empatico: se mai manca un po' di quel coraggio e di quella follia che avevano contraddistinto le prove precedenti di questo ex ragazzino che cerca, non senza fatica e ostinazione, di diventare un uomo.

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La mia vita con john f. DoNovan: il scivoloso flop dEl genio dolan

Capita a tutti, ai grandi intendo. Ognuno ha il suo: a volte è semplicemente un rimpianto, un film mai fatto (il Mastorna di Fellini, il Napoleone di Kubrick…), quello che (anche se magari ti chiami Sergio Leone) non sei proprio riuscito a mettere in piedi. Altre invece – e qui la situazione è più seria – è un film maledetto, uno di quelli che, spesso non si capisce perché, prendono da subito una piega imprevedibile e sbagliata. Nati male e finiti peggio.

Anche di questi (avete presente 1941 di Spielberg?) è piena la (in)gloriosa storia del cinema. Forse per questo motivo bisognerebbe aspettare 30 anni per parlare de La mia vita con John F. Donovan: per capire se è solo lo scalino scheggiato di un’esaltante arrampicata al cielo oppure il primo segnale di una rovinosa caduta. Ma raramente si è visto un film più tormentato (e pasticciato) di questo, primo ciclopico flop di Xavier Dolan, l’enfant prodige del cinema canadese che ci aveva prima sorpreso, ad appena 19 anni, con J’ai tuè ma mère, e poi addirittura incantato con capolavori di soffocante energia come Mommy.

 Qui invece, nonostante quel bellissimo prologo smerigliato (perché accidenti se è bravo il ragazzino), va tutto storto: e proprio quando, più di ogni altra volta, sarebbe dovuto andare tutto bene. Primo film inglese, cast favoloso (dall’eroico Kit Harington di Game of Thrones a Natalie Portman, da Susan Sarandon a Kathy Bates, passando per il bambino prodigio Jacob Tierney, per citarne solo alcuni), budget da major. Ma se già prima di arrivare nelle sale metti Jessica Chastain sulla locandina e poi tagli completamente il suo personaggio in fase di montaggio vuol dire che non hai le idee chiarissime.

Il resto è puro delirio: rifatto mille volte, massacrato già al Festival di Toronto (2,8 su 10 la media su Metacritic: 2,8? What the fuck!) dopo avere schivato Cannes, messo in listino e rimandato mesi e poi anni (tanto che sulla Croisette abbiamo già fatto in tempo a vedere il suo nuovo lungometraggio, Matthias & Maxime, bene ma non benissimo: comunque meglio) anche in Italia.

 Il fatto è che l’autoreferenzialità si è fatta insopportabile, così come la ripetitività dei suoi temi-ossessioni – il rapporto conflittuale e disfunzionale con la madre, l’omosessualità, la solitudine – che qui vengono declinati con un sentimentalismo spinto e leccato, assai lontano dalla contagiosa carica eversiva dei suoi lavori più riusciti. Di certo c’è che, nella storia dell’amicizia a distanza tra un giovane divo della tv e un fan bambino che sogna di fare l’attore, legati da una fitta – e improbabilissima (come molto altro qui dentro) – corrispondenza, Dolan si riconosce, con forzato egocentrismo, in entrambi: nella star omosessuale che non può permettersi di essere se stesso, travolto da una celebrità improvvisa e superficiale, ma anche – lui che a 9 anni aveva scritto una lettera a Leonardo DiCaprio – nel bimbo troppo solo che a scuola chiamano femminuccia e che nell’adulto trova qualcuno capace di ascoltarlo.

Vite parallele, che, in parte, sono la stessa: ma a cui le pesanti zavorre della retorica sottraggono autenticità (nonostante in calce, sul nero prima che il film cominci, Dolan implori “Datemi la verità”), indirizzando la storia verso un melò scivoloso, anche mieloso. Restano i colori ultra saturi e virati allo stremo, i primissimi piani e poco altro: anche la scelta delle canzoni – Rolling in the deep, Jesus of Suburbia o la Stand by me versione Florence + the Machine – appaiono in un certo senso prudenti. Mentre a noi, che eravamo braccia al cielo con Dragostea Din Tei in È solo la fine del mondo, non resta che chiederci che ne sarà di questo già altrove geniale regista di appena 30 anni: il ragazzo ci ha fatto impazzire, ora tocca all’uomo convincerci che non c’eravamo sbagliati.

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E' solo la fine del mondo: il rabbioso melò di un moccioso geniale

C'è un momento di questo film in cui vi verrà voglia di saltare in piedi sulla sedia, di ballare, di cantare a squarciagola. E di applaudire. Anche se la canzone è <Dragostea>, cioè mica <Blowin' in the wind>: ma forse proprio per quello. Perché è un istante di gioia infinita, pura e senza remore, in una storia in realtà dolente e drammaticissima: e, più di tutto, è la firma del geniale moccioso di anni 27 e sei film all'attivo che questo melò rabbioso e struggente lo ha girato, mettendoci, come sempre, tutto se stesso.

Tratto dalla piece di Jean-Luc Lagarce, morto a soli 38 anni di Aids, <E' solo la fine del mondo> conferma, dopo il capolavoro <Mommy>, l'inconsueta potenza del cinema di Xavier Dolan: un film dove la sorprendente energia del racconto, l'enorme vitalità del linguaggio, l'aggressività di uno stile che mescola insieme colori decisi, primissimi piani di devastante malinconia, canzoni trash e dialoghi ricolmi di rancore, mettono in secondo piano difetti (un intreccio troppo rigido, una ricerca formale a tratti estetizzante, un brutto finale...) che pure ci sono, ma che non possono fare dimenticare la forza trascinante di una messa in scena che non lascia mai indifferenti.

Elaborazione di un lutto che non è ancora stato dichiarato, <E' solo la fine del mondo>, Grand Prix all'ultimo Festival di Cannes, racconta di un giovane scrittore che torna a casa dopo 12 anni di assenza per dire alla sua famiglia che sta per morire...

Fatto detonare il potere dei ricordi, in un luogo dove anche gli oggetti hanno un'anima, Dolan affronta a nervi tesi alcuni temi simbolo (i legami familiari, il distacco, il <tradimento>) del suo cinema iconoclasta, in una resa dei conti che ha il passo dell'addio dove gli sono complici il meglio degli interpreti di Francia: sguardi e voci di un film non riconciliato. Perché sì, a volte morire è davvero imperdonabile.

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Mommy: l'immagine è stretta, ma il talento grande

Fatemi una cortesia: non protestate contro il proiezionista. E' vero, l'immagine è stretta. Molto stretta. Ma non è un errore: è voluto. E' un'idea: o, se preferite, una provocazione. O meglio ancora la firma in calce di un ragazzino di 25 anni (ma già 5 film alle spalle) che ha una concezione maledettamente pop (come la musica che spara a tutto volume) dell'espressione cinematografica.
Lo ha girato Xavier Dolan, l'enfant prodige del cinema canadese (suo anche l'interessante «Tom à la ferme» ingiustamente ignorato l'anno scorso a Venezia), il film più bello e originale visto a Cannes 2014: il sovraeccitato ritratto di una famiglia disfunzionale che il giovane regista ha diretto con grande intensità ed energia, trasformando una complessa storia d'amore tra madre e figlio in una sorta di nevrotico - eppure inaspettatamente equilibrato - triangolo «sentimentale» dove, oltre la mommy del titolo (Anne Dorval, bravissima), vitale panterona con i jeans stretti sul sedere e il figlio, impulsivo e violento, appena tornato a casa da un centro di correzione, si inserisce la bella vicina di casa, insegnante con un dolore fondo mai davvero superato e una balbuzie evidente.
Tre personaggi molto ben disegnati a cui il film, scritto e montato con personalità dallo stesso regista, regala dialoghi (e torpiloqui) serrati e a tratti pirotecnici intervallati da esplosioni di violenza incontrollata. Tra una versione stonatissima di «Vivo per lei» di Bocelli e alcune usuratissime hit usate anche con ironia in senso narrativo, Dolan lascia il suo segno costringendo, come detto, buona parte del film in una parte ridotta dello schermo, dove l'immagine - claustrofobica - viene rinchiusa (alla faccia del 16:9 del salotto buono) nel formato 1:1: piccola e singolare porzione del tutto, in cui il 25enne autore può comprimere, ammassare e stringere (rendendoli così più insofferenti, soffocanti e insopportabili) sentimenti ed emozioni, allargando poi il tiro, il respiro e lo schermo (in una sequenza che a Cannes - dove Dolan ha vinto il premio della giuria ex aequo col mito Godard - scatenò l'applauso a scena aperta) nei momenti invece dove la storia tocca più da vicino una non utopica serenità. Non solo un vezzo d'autore, ma una soluzione stilistica che ha le sue, condivisibili o meno, ragioni: che vi piaccia o no, ha carattere il ragazzino. E noi siamo con lui.

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