2018, Classifiche Filiberto Molossi 2018, Classifiche Filiberto Molossi

Mostra del cinema: la pagella dei film

Dopo avere votato una decina di film presenti a Venezia (vittoria di Roma) , ecco, a bocce ferme, le valutazioni di altri dieci film in concorso e non.

LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO 6,5

Zerocalcare alla prova del cinema: si ride e il cameo di Panatta vale più di una vittoria a Wimbledon. Non tutti i momenti malicomici sono risolti, ma meglio un giorno da armadillo che cento da leoni.



VOX LUX 7+

Un film post traumatico sul XXI secolo e sulla perdita dell’innocenza di un’America che ha deciso che il passato puzza. Ma scopre che il presente non è meglio. Inizio fantastico.



UNA STORIA SENZA NOME 4,5

Sceneggiatura metafilmica ai limiti dell’imbarazzante: il mix tra thriller e commedia è molto fragile e tra gli interpreti si salva a malapena il solo Carpentieri.



AT ETERNITY’S GATE 6

Van Gogh secondo Schnabel: l’uomo prima del mito, in un’operazione un po’ modaiola che però resta lontana dalle trappole del biopic più tradizionale.




CAPRI-REVOLUTION 6

Nel confronto di utopie differenti, Martone chiude la sua trilogia sull’Italia: un film profondamente contemporaneo anche se un po’ troppo estetizzante.




I VILLEGGIANTI 4,5

La Bruni Tedeschi riannoda il filo dei ricordi e procede sulla falsariga dei suoi film precedenti: realtà “aumentata” e mistificata, ma qui la sceneggiatura è davvero debolissima.




DRIVEN 6,5

Ne ha un po’ di “Barry Seal”, ma l’amicizia tra il genio, slirato, delle auto e l’informatore, cialtronesco, dell’Fbi ha ritmo e più momenti paradossali e divertenti.




MANTA RAY 7,5

Un uomo che non parla, che ne sostituisce un altro, una donna che torna, la foresta e il mare: un film ipnotico e suggestivo, il vincitore di Orizzonti che avrebbe meritato il concorso.




THE NIGHTINGALE 5,5

Se n’è parlato più per le offese ricevute dalla regista che per il film in sè: che un revenge movie ambizioso che si sfalda però via via e si diluga eccessivamente.




OPERA SENZA AUTORE 6--

Voto un po’ generoso, perché la matrice televisiva è quasi insopportabile: peròil melò “che non distoglie lo sguardo” si scopre appassionato nel celebrare la nemesi dell’arte.










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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Hunger games: l'ultimo atto di una saga più adult che young

Lo hanno girato anche a Parigi, hanno sparato e sono morti per finta in quelle strade dove poi, altri, solo sette giorni fa, hanno sparato e sono morti davvero. Fai fatica a non pensarci quando senti la prima raffica di mitra e nella doppiezza schizofrenica del cinema qualcuno pronuncia una frase che sembra uscita dal tg: «Vogliono distruggere il nostro modo di vivere». Solo che a dirlo stavolta e' il tiranno, il carnefice... Per quanto prima fosse feroce e crudele, d'ora in poi non e' più un gioco: non e' tempo di buoni e cattivi in «Hunger games», la saga fantasy, più adult che young, arrivata al finale di partita. Altri profughi, altri treni, altri civili uccisi: amaro e dolente, cinico e cupo come solo petrolio (protagonista di una delle scene più spettacolari) sa essere, l'ultimo atto del fenomeno cinematografico tratto dai romanzi di Suzanne Collins si porta dietro lo choc post traumatico di una guerra che e' sempre. E lascia ferite, cicatrici, intossica le coscienze, fa vacillare un già incerto sé. Uno scontro senza regole (tantomeno quelle etiche) dove Katniss, costretta suo malgrado a indossare i panni del simbolo, si batte per rovesciare finalmente il dittatore: rischiando di rimanere intrappolata nel gorgo lurido del potere. Pedina di uno spettacolo kitsch e sanguinario di cui adesso vuole riscrivere il copione.
Da eroina fantasy a personaggio tragico, la parabola della ghiandaia imitatrice votata al martirio (che ha dato popolarità mondiale a Jennifer Lawrence, una che, a 25 anni appena, ha dimostrato di sapere fare qualunque altra cosa, vincere un Oscar compreso) è completa: e se l'epilogo risulta un po' posticcio e alcune dinamiche della sfera privata avrebbero potuto essere sviluppate con maggiore finezza, il sipario cala comunque con una violenza e una presa di coscienza che superano con maturità le logiche e i tranelli del kolossal per teenager.
Efficace compromesso tra war movie, catastrofico e fantascienza antitotalitarista, il film di Francis Lawrence sposa il cinema di guerriglia facendo di questo quarto «Hunger games» un combat movie, a tratti circolare altre più labirintico e sotterraneo, attraversato dal senso di colpa, sfinito dagli eventi, segnato dai dubbi. Non conta tanto il coraggio, né il sacrificio: quanto l'affannosa ricerca di un angolo di pace dove sopravvivere agli incubi. E fare riposare anche chi (anche nella realtà, come Philip Seymour Hoffman, che qui spegne l'ultimo sorriso) è caduto lungo la strada. 

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2015, Recensione Filiberto Molossi 2015, Recensione Filiberto Molossi

Rams: di uomini e di pecore. E di antichi rancori

Di uomini e di pecore. E' un film sospeso, dove il tempo non ha ragione di passare, <Rams>: ibernato in una terra di nessuno come un vecchio e cieco rancore di cui forse si è perso persino il filo, la causa, la ragione. Intransigente quanto l'astio e rigido come le stagioni, incastrato in un luogo non luogo dove il Natale lo festeggi da solo: e ti fai pure il regalo. Un film di barbe lunghe, risentimenti antichi e spessi maglioni di lana: ma, più di tutto, un film curioso. Che al giorno d'oggi no, non è poco. Singolare (e ruvido) nell'ambientazione – un'Islanda rurale e isolata, finalmente né da spot né da cartolina, in cui il paesaggio è terzo, spesso scomodo, interlocutore tra i due protagonisti -, spigoloso e reticente nei caratteri, onesto nel raccontare una normalità e un quotidiano (se felicemente o no giudicate voi) fuori dal mondo e dall'omologazione.

Gummi e Kiddi sono due anziani fratelli che non si parlano da 40 anni: i pochi, rari e per nulla concilianti, messaggi se li scambiano grazie a un cane, improvvisato postino. Entrambi pastori, vivono per superarsi all'annuale premio per il miglior montone: ma un giorno, a causa del pericolo di un'infezione, il sistema sanitario gli intima di abbattere tutte le loro bestie...

Vincitore di <Un certain regard> all'ultimo Festival di Cannes (la giuria era presieduta da Isabella Rossellini) e candidato a miglior film dell'anno agli Efa, gli Oscar europei, <Rams>, nonostante una locandina e un sottotitolo (<storia di due fratelli e otto pecore>) fuorvianti che lo vendono come una commedia (quando invece, al di là di una certa paradossale ironia, il contesto è più che serio), è un dramma familiare dove riconoscere l'inutile ostinazione dell'odio e del livore, un film di stati d'animo, magari sin troppo elementare e scarno, ma efficace nel cogliere, in quella ostile solitudine, il rapporto esclusivo tra uomo e natura e tra uomo e animale. Che può anche risultare, improvvisamente, commovente.

Un cinema di piccole cose e di poche parole ma di sentimenti fondi, ancorati, essenziali eppure stratificati, quello di Grímur Hákonarson, 38enne islandese all'opera seconda: dove, prima che sia troppo tardi, nella tormenta che infuria è anche possibile ritrovarsi e riscoprirsi fratelli.

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Spectre: ovvero 007 e l'irresistibile tentazione della normalità

«Dicono che sei finito». «E tu che ne pensi?». «Secondo me hai appena cominciato».
Non possiamo non dirci bondiani: e non solo perché a ogni aperitivo invece di un banalissimo spritz abbiamo sempre la tentazione di ordinare un Vodka Martini, «agitato, non mescolato»; oppure perché sono anni che sogniamo di fare capitolare la Bellucci al primo sguardo e salutarla (chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato...) la mattina dopo. Ma perché 007, al secolo Bond James Bond, è un'icona assoluta, un'istituzione british ma ormai globale, un brand forte e conosciuto quanto la Coca Cola: qualcosa di insostituibile e che non passa mai di moda, come i souvenir parigini a forma di Torre Eiffel o gli anolini per Natale. E se alla vigilia delle nozze d'argento con il cinema (siamo al capitolo 24) qualcuno pensa di potere pensionare il mito si sbaglia di grosso: anche se il Bond di Mendes (già, proprio lui: il regista di «American beauty» e «Revolutionary road») è molto umano e ci piace per questo. E all'ossessione adrenalinica di salvare tutto e tutti stavolta contrappone l'irresistibile tentazione della normalità.
Tempus fugit, corri James: fisico, aereo (che spettacolo le sequenze in elicottero), agonistico, «Spectre» fa resuscitare i morti, ma mentre il passato torna, il futuro preoccupa. Gli agenti doppio zero potrebbero infatti avere i giorni contati: il governo pensa non ci sia più bisogno di loro. E intanto, un'organizzazione segreta e maligna, la Spectre appunto (guidata da un Christoph Waltz che altrove è stato anche più cattivo di così), scatena il caos...
Girato in pellicola, con un bellissimo piano sequenza di apertura (che poi è la firma dei buoni veri), il nuovo 007, divertente e felicemente antisalutistico (la bibita vegana? Bevitela tu), seppure non sia all'altezza di «Skyfall» (e l'intreccio assomigli pericolosamente all'ultimo «Mission: impossible»), sa terribilmente il fatto suo ed esalta l'abituale mix di ironia, eleganza (garantisce Tom Ford) e azione con un confronto degno di Caino e Abele. Emerge il privato e nel solito giro del mondo all inclusive (da Città del Messico a Londra, dall'Austria al Marocco) c'è un posto di rilievo anche per Roma: dove Bond-Daniel Craig interroga la Bellucci mentre la spoglia (è 007, vuoi che non sappia fare due cose contemporaneamente?) ed è protagonista di un clamoroso inseguimento tra il Vaticano e il Lungotevere. In una notte in cui nella capitale tutto è possibile: anche trovare, con l'aiuto dell'agente segreto più famoso del mondo, persino un parcheggio.

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Il lavoro logora anche chi ce l'ha: è La legge del mercato

Chi lavora è perduto: il posto fisso? Logora anche chi ce l'ha. E, stretta al collo la cravatta, è costretto a trasformarsi nell'involontario kapò di un'epoca precaria e orrenda, tormentato persecutore di chi conosce (e vive) la sua stessa miseria. Ladri di buoni sconto ma anche di speranze nell'amaro «La legge del mercato», gran bel film, freddo ma inesorabile, sulla vita al tempo della crisi con cui il francese Stéphane Brizé denuncia la brutalità (a volte paradossale) dei meccanismi del mondo del lavoro. Girato in appena 21 giorni, con un piccolo budget e un taglio alla Dardenne, il film, dove attori veri recitano accanto a non professionisti, si muove nella zona franca del cinema politico e sociale (quello «ad altezza d'uomo») per raccontare, in modo asciutto, il dramma di Thierry, disoccupato 51enne in cerca di lavoro.
La cassiera che aggiunge di nascosto i punti a chi non ne ha abbastanza, il pensionato che si mette in tasca la bistecca, l'impiegata che fa la cresta sui coupon: e poi le banche e i loro prestiti usurai, i colloqui di lavoro su skype, le valutazioni umilianti (cerchi un impiego? Meglio se ti agganci l'ultimo bottone della camicia...) a cui è sottoposto chi cerca, faticosamente, di rimettersi in gioco. Scarno e senza fronzoli, «La legge del mercato» fa largo uso del piano sequenza e della macchina a mano rinunciando quasi completamente alla musica per stabilire con chi guarda un'empatia priva di trucchi, dove la verità emerga anche nel suo lato più tragicomico e meschino. Brizé mette in scena una guerra tra poveri auspicando un risveglio etico, per poi cucire addosso il film a un meraviglioso Vincent Lindon (miglior attore del Festival di Cannes) che coglie anche con un silenzio l'imbarazzo e lo sdegno per il peggiore dei mondi possibili.

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