Stay still, (non) diamoci una mossa: l'inerzia come scelta politica
È un film di storti e scompagnati, inadeguati e smarriti, sempre alla ricerca di un luogo altro, una terra di nessuno dove, in una società vittima dei suoi stessi ruoli, le regole possano essere trasgredite, la normalità finalmente disattesa, «Stay still»: opera prima - bizzarra, curiosa, interessante - di Elisa Mishto, un'ex pugile (e video artista) italo-tedesca che sceglie l'ozio come forma ideale di resistenza (non solo passiva) a un mondo che si affanna per non andare da nessuna parte. Un manifesto femminile e a tratti surreale in cui anche l'inerzia è un fatto politico: la scelta consapevole di chi pensa di non avere scelta. L'incontro, tra prove tecniche di sopravvivenza e la scintilla dell'attrazione, tra Julie, ragazza interrotta a cui piace giocare col fuoco, che indossa sempre guanti di gomma gialli così da sembrare sufficientemente strana per stare alla larga dalle altrui aspettative e Agnes, infermiera incasinata e madre inaffidabile che lavora nella clinica dove l'altra si rinchiude volontariamente per evitare guai con la legge. La prima ha una sola grande ambizione nella vita, non fare nulla; la seconda forse invece si accontenterebbe di imparare almeno a stare a galla: su pianeti differenti, si riconoscono nel reciproco disagio ritrovandosi complici. Piscine senz'acqua, l'illusione della felicità come ricompensa, l'arte di rimanere immobile: freddo ma non inerte, scarno ma mai povero, geometrico ma non inutilmente cerebrale, «Stay still» sublima il rapporto solidale tra la giovane ereditiera che non voleva essere un'altra formica nel mondo dove tutti corrono e la donna che dovrebbe prendersi cura degli altri ma non riesce a badare nemmeno a sua figlia. Una, sarcastica fino all'autolesionismo, fugge dalla realtà; l'altra, incapace di essere all'altezza (già, ma di cosa?), fatica a starci dentro: fili scoperti del grande quadro elettrico dell'omologazione che la Mishto unisce per favorire il cortocircuito, il cambiamento. Non per pazza gioia, sia chiaro: piuttosto per lanciare i semi di una rivoluzione che sia (perlomeno) personale. Se entrambe le interpreti sono brave, adeguate nelle loro differenze di toni e colori, è vero però che il film avrebbe potuto avere ancora più coraggio nel rompere gli schemi di una drammaturgia che al contrario appare, col passare dei minuti, sin troppo lineare. Ma «Stay still» ha comunque (merito anche delle musiche di Apparat, guru dell'elettronica che l'anno scorso venne a Parma al Barezzi Festival) un che di ipnotico, un fascino irregolare: quello di chi sa che per stare davvero fermi c'è un solo modo: cominciare a muoversi.