Due, claustrofobia di un sentimento
È un film segreto, che trattiene il respiro, «Due», stretto, compresso, rinchiuso nella claustrofobia di un sentimento intrappolato nella sua stessa difficoltà a rivelarsi, manifestarsi. E poi, nel momento in cui non è più in grado di farlo, bloccato, muto, eppure paradossalmente palese, esibito, finalmente - e ostinatamente - rivendicato. Un film a cui basta una padella lasciata troppo a lungo sul fuoco, il rumore inconfondibile della centrifuga di una lavatrice, un'auto ferma a bordo della strada con le quattro frecce accese, per costruire una svolta, una scena madre, una storia degna di un seguito, di un domani. Momenti privi di parole, nel fuoricampo del dolore e dell'imbarazzo, dove senza dire nulla viene detto tutto. Non è un talento banale quello di Filippo Meneghetti, italiano di Francia che al suo debutto (acclamato e premiatissimo ovunque) gira un attento e cesellato film di regia, dimostrandosi capace di raccontare e dare forma, con minimalista determinazione, all'invisibile, al mondo - misterioso quando non oscuro - che esiste al di là di una porta chiusa. La delicatezza, il pudore e la distanza (mai davvero esibiti) sa che certe emozioni vanno raccontate a luce spenta. Due donne di una certa età abitano l'una di fronte all'altra, sullo stesso piano: si amano da anni, senza che nessuno se ne sia mai accorto. Ormai in pensione, vorrebbero trasferirsi a Roma, dove tutto un bel giorno è iniziato: ma la più anziana, vedova e nonna, non sa come dirlo ai suoi figli... La malinconia dell'identità negata, la paura di essere se stessi, i pregiudizi della società borghese, lo sguardo degli altri e il proprio su di sé, ma anche l'impossibilità - evidente, straziante - di essere una senza l'altra, di avere un senso se non in due: schivate le trappole del melodramma, Meneghetti, dopo un prologo di lirica tensione, misura i passi sul terreno del represso, portando quell'amore resistente ai confini del thriller psicologico, dove reminiscenze hitchcockiane (ma non sarebbe errato scomodare anche Polanski e Chabrol) si sciolgono nella voce di Betty Curtis. Un punto di vista, ma più di tutto un modo di guardare inedito che rivendica la grande intimità, tra primissimi piani, tagli sempre stretti, particolari, porzioni del tutto, tra il regista e i suoi personaggi, donne innamorate a cui le magnifiche interpretazioni di Martine Chevallier e Barbara Sukowa donano un ultimo lento e un'altra possibilità.