Festival, Recensione, 2021 Filiberto Molossi Festival, Recensione, 2021 Filiberto Molossi

Due, claustrofobia di un sentimento

È un film segreto, che trattiene il respiro, «Due», stretto, compresso, rinchiuso nella claustrofobia di un sentimento intrappolato nella sua stessa difficoltà a rivelarsi, manifestarsi. E poi, nel momento in cui non è più in grado di farlo, bloccato, muto, eppure paradossalmente palese, esibito, finalmente - e ostinatamente - rivendicato. Un film a cui basta una padella lasciata troppo a lungo sul fuoco, il rumore inconfondibile della centrifuga di una lavatrice, un'auto ferma a bordo della strada con le quattro frecce accese, per costruire una svolta, una scena madre, una storia degna di un seguito, di un domani. Momenti privi di parole, nel fuoricampo del dolore e dell'imbarazzo, dove senza dire nulla viene detto tutto. Non è un talento banale quello di Filippo Meneghetti, italiano di Francia che al suo debutto (acclamato e premiatissimo ovunque) gira un attento e cesellato film di regia, dimostrandosi capace di raccontare e dare forma, con minimalista determinazione, all'invisibile, al mondo - misterioso quando non oscuro - che esiste al di là di una porta chiusa. La delicatezza, il pudore e la distanza (mai davvero esibiti) sa che certe emozioni vanno raccontate a luce spenta. Due donne di una certa età abitano l'una di fronte all'altra, sullo stesso piano: si amano da anni, senza che nessuno se ne sia mai accorto. Ormai in pensione, vorrebbero trasferirsi a Roma, dove tutto un bel giorno è iniziato: ma la più anziana, vedova e nonna, non sa come dirlo ai suoi figli... La malinconia dell'identità negata, la paura di essere se stessi, i pregiudizi della società borghese, lo sguardo degli altri e il proprio su di sé, ma anche l'impossibilità - evidente, straziante - di essere una senza l'altra, di avere un senso se non in due: schivate le trappole del melodramma, Meneghetti, dopo un prologo di lirica tensione, misura i passi sul terreno del represso, portando quell'amore resistente ai confini del thriller psicologico, dove reminiscenze hitchcockiane (ma non sarebbe errato scomodare anche Polanski e Chabrol) si sciolgono nella voce di Betty Curtis. Un punto di vista, ma più di tutto un modo di guardare inedito che rivendica la grande intimità, tra primissimi piani, tagli sempre stretti, particolari, porzioni del tutto, tra il regista e i suoi personaggi, donne innamorate a cui le magnifiche interpretazioni di Martine Chevallier e Barbara Sukowa donano un ultimo lento e un'altra possibilità.

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2016, Protagonisti Filiberto Molossi 2016, Protagonisti Filiberto Molossi

Quella volta con Michael Cimino, il ribelle che Hollywood odiava

Credo che quella sera pensasse di cavarsela con poco: un saluto, un bel discorso, una citazione, splendida per altro, dell'amico Bertolucci - il cinema è la nostalgia per qualcosa che non è mai esistito -, e ciao arrivederci. E invece no. Invece, andò diversamente. Un po' perché sul suo cammino quel piccolo grande uomo con cappello da cowboy e occhiali da sole alle 21 e passa di sera trovò un giornalista pazzo - io, per servirvi -che gli raccontò di essere cresciuto con la locandina de "Il cacciatore" sopra al letto: e soprattutto perché a sentirlo e vederlo era venuta un sacco di gente che gli voleva bene davvero, che lo considerava un genio assoluto, che era dalla sua parte più di quello che forse lui avrebbe mai pensato. L'unica volta che ho incontrato e intervistato Michael Cimino è stato esattamente undici anni prima della sua morte: era un 2 luglio anche allora, all'arena dell'Edison di Parma, ma del 2005. il suo film più recente (che poi sarebbe rimasto l'ultimo) era già di 9 anni prima: ma per tutti era ancora il regista de "L'anno del dragone" e de "I cancelli del cielo". Un mito. Che arrivò accompagnato dalla sua leggenda e dalla sua maledizione. Metteva soggezione nonostante fosse alto un metro e 65 circa: la pelle sembrava finta, di porcellana, gli occhi invisibili dietro quegli occhiali. Ma si sciolse ai primi applausi: finì con abbracci fraterni al sindaco di allora, pacche sulle spalle agli spettatori, calorose strette di mano, baci alle ragazze. Sì, insomma: un trionfo. Disse, in breve tempo (doveva tornare a Bologna), molto sul cinema, l'arte, il coraggio. Anche quello di chi amando sopra ogni cosa ilcinema, dal cinema era stato messo da parte: fuori gioco, ai margini, in castigo. Lui, il regista anarchico e ribelle che lottò sempre, inquadratura dopo inquadratura, contro il sistema e la politica degli studios: che aveva ancora molto da dare, anche se nessuno o quasi lo ascoltava più. . Pagò per sempre l'insuccesso   de «I cancelli del cielo», western epico e inedito che portò al collassola United Artists. Divenne un «paria», lui che solo due anni prima aveva girato un film leggendario (devo rammentarvi la sequenza della roulette russa?) come «Il cacciatore». Eppure Hollywood gli rese sempre la vita difficile, difficilissima: nella sua carriera è riuscito a girare solo 7 film, alcuni immortali, altri sicuramente meno riusciti. Gli chiesi se continuava ad amare «Il cacciatore» - il suo filmpiù famoso, quello che gli aveva regalato l'Oscar -, come la prima volta, quando lo aveva girato: «Si può amare la stessa donna due volte nello stesso modo? Un amore speciale - disse - è davvero un amore speciale. Non credo che un sentimento così possa essere ripetuto o rivissuto, ma può essere sostenuto e alimentato». Fu una sera di carezze, bella forse anche per lui: ospite della fondazione Solares per ricevere il premio speciale per l'Eccellenza artistica, Cimino rivelò di avere parlato poco prima con Bernardo Bertolucci: «E’ un vecchio caro amico. Penso che, insieme a Polanski, sia il miglior regista al mondo. La mia ammirazione per lui è senza limiti. Mi ha consegnato - disse sorridendo alla platea - le chiavi della città. Mi ha detto: “Dì che hai parlato con me e che, per un’ora, ti ho dato il permesso di fare a Parma tutto quello che vuoi". Oggi il sindaco sono io». Era un gigante, il guerriero visionario di storie virili,  il cavaliere solitario di una contro America che cercava, anche nella notte più fonda, il sole:  pagò per tutti, sempre più del dovuto. Ma resta il simbolo di una storia americana. Maledetta, forse: ma che è impossibile non amare.

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Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi

Salve Macbeth, che sarai re: furia, sangue e Shakespeare

Del sangue e della furia: e delle ombre che agitano, come scorpioni velenosi, i pensieri. «Salve Macbeth, che sarai re». E’ un film pallido, feroce e senza sole, figurativamente potente - nel contrasto tra esterni e interni, totali e primi piani, come pure nelle sottolineature pittoriche delle panoramiche e nell’uso del colore in senso narrativo (la fotografia, splendida, è di Adam Arkapaw, lo stesso del primo «True detective») -, l’ennesima trasposizione della tragedia shakespeariana sul delirio del potere e dell’ambizione. Un classico tra i classici che ora l’australiano Justin Kurzel, visionario della prima ora, dipinge sullo schermo esaltandone il carattere dark e ostile (il freddo, come l’inospitalità degli ambienti, sono tangibili) per coglierne, restando fedele al testo, l’anima più cupa, ieratica e desolata. Un film livido e «spaventoso» (perché accecato dalla malvagità e affogato nella colpa) questo «Macbeth», interessante soprattutto da un punto di vista formale, meno entusiasmante invece da quello della rilettura di un testo già tradotto e adattato per il cinema (in modo più personale e definitivo) da giganti come Wells, Kurosawa e Polanski. Battuto dal vento, accompagnato da una colonna sonora (sin troppo insistita) stridente e minacciosa, il «Macbeth» di Kurzel usa molto bene gli spazi, cercando prima nella nebbia la paura sui volti dei soldati-ragazzi e poi virando in rosso, tra fumo e sangue, il duello finale: ne esce un film più affascinante che appassionante, potente però nello sguardo. E nelle interpretazioni di una coppia di star – Michael Fassbender e Marion Cotillard – che portano con sé sgomento, rabbia e lacrime della dannazione.

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