Campo di battaglia, l'apologo di Amelio nella trincea dell'esistenza
C'è la cecità di un Paese che da lì a poco abbraccerà il fascismo, ma c'è soprattutto l'umanità e l'idealismo di un regista che porta una carezza sul capo di una miseria comune e si schiera accanto a chi soffre e a chi sceglie la vita davanti all'orrore, in «Campo di battaglia» di Gianni Amelio. In un'Italia analfabeta che indossava la stessa divisa ma in comune non aveva nemmeno una lingua, persa in un coacervo di dialetti, l'autore de «Il ladro di bambini» gira non un film di guerra ma sulla guerra: e nel 1918 della vittoria (ma a che prezzo?) coglie l'atrocità di ogni conflitto senza nemmeno dovere sparare un colpo.
La trincea, questa volta, è esistenziale, astratta, ma il dolore autentico, vero, presente: quello dei soldati ricoverati in un ospedale da campo, limbo doloroso prima di essere ributtati al l'inferno.
E' qui che lavorano due medici, amici dai tempi dell'Università: uno, inflessibile e pervaso da patrio furore, è pronto a fare giustiziare chiunque si sia procurato volontariamente una ferita pur di essere riformato, mentre l'altro cerca al contrario di aiutare, rischiando la corte marziale, i militari (per lo più ragazzi di 19-20 anni) a tornare a casa, aggravandogli la prognosi e mentendo sulle loro condizioni. Ma intanto, sull'ultimo anno di guerra incombe anche una terribile pandemia, la Spagnola...
Girato in Friuli, nei veri campi di battaglia della Prima guerra mondiale, l'apologo pacifista di Amelio marcia insieme all'esercito dei disperati, quelli che la guerra non la dichiarano ma sono costretti a subirla: forte di una ricostruzione attenta, il regista del «Signore delle formiche» gira un film partecipe e pieno di umana compassione anche se freddo, potente nella sua dolente disillusione seppure un po' convenzionale e non completamente risolto nel personaggio femminile (l'infermiera, già brillante compagna di studi dei due medici).
Un affresco a cui è impossibile però sottrarsi o sentirsi esclusi in cui l'autore coglie - complice anche l'intensa, credibile, empatica, interpretazione di Alessandro Borghi - il senso e la gravità di un dramma universale. Tanto che nella sequenza della fucilazione, la cinepresa sta dietro le spalle del condannato a morte, guardando negli occhi il plotone di esecuzione: che tirando il grilletto fa fuoco anche contro di noi.