2024, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2024, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Campo di battaglia, l'apologo di Amelio nella trincea dell'esistenza

C'è la cecità di un Paese che da lì a poco abbraccerà il fascismo, ma c'è soprattutto l'umanità e l'idealismo di un regista che porta una carezza sul capo di una miseria comune e si schiera accanto a chi soffre e a chi sceglie la vita davanti all'orrore, in «Campo di battaglia» di Gianni Amelio. In un'Italia analfabeta che indossava la stessa divisa ma in comune non aveva nemmeno una lingua, persa in un coacervo di dialetti, l'autore de «Il ladro di bambini» gira non un film di guerra ma sulla guerra: e nel 1918 della vittoria (ma a che prezzo?) coglie l'atrocità di ogni conflitto senza nemmeno dovere sparare un colpo.

La trincea, questa volta, è esistenziale, astratta, ma il dolore autentico, vero, presente: quello dei soldati ricoverati in un ospedale da campo, limbo doloroso prima di essere ributtati al l'inferno.

E' qui che lavorano due medici, amici dai tempi dell'Università: uno, inflessibile e pervaso da patrio furore, è pronto a fare giustiziare chiunque si sia procurato volontariamente una ferita pur di essere riformato, mentre l'altro cerca al contrario di aiutare, rischiando la corte marziale, i militari (per lo più ragazzi di 19-20 anni) a tornare a casa, aggravandogli la prognosi e mentendo sulle loro condizioni. Ma intanto, sull'ultimo anno di guerra incombe anche una terribile pandemia, la Spagnola...

Girato in Friuli, nei veri campi di battaglia della Prima guerra mondiale, l'apologo pacifista di Amelio marcia insieme all'esercito dei disperati, quelli che la guerra non la dichiarano ma sono costretti a subirla: forte di una ricostruzione attenta, il regista del «Signore delle formiche» gira un film partecipe e pieno di umana compassione anche se freddo, potente nella sua dolente disillusione seppure un po' convenzionale e non completamente risolto nel personaggio femminile (l'infermiera, già brillante compagna di studi dei due medici).

Un affresco a cui è impossibile però sottrarsi o sentirsi esclusi in cui l'autore coglie - complice anche l'intensa, credibile, empatica, interpretazione di Alessandro Borghi - il senso e la gravità di un dramma universale. Tanto che nella sequenza della fucilazione, la cinepresa sta dietro le spalle del condannato a morte, guardando negli occhi il plotone di esecuzione: che tirando il grilletto fa fuoco anche contro di noi.

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Protagonisti, 2022 Filiberto Molossi Protagonisti, 2022 Filiberto Molossi

In memoria di Luigi Lagrasta, l'uomo che amava il cinema

Non ha mollato mai un secondo. Nemmeno per un attimo. Sempre sul pezzo, sempre ritto sulla barricata. Anche in ospedale, dove era stato ricoverato per alcuni giorni nelle scorse settimane: il cuore era ballerino, ma non era questo a preoccuparlo. Piuttosto, anche lì, tra un controllo e l'altro, pensava alle future rassegne, ai film in lingua originale (che era stato tra i primi in Italia a «sdoganare»), a scovare qualche pellicola per tenere duro anche adesso, soprattutto adesso, che Covid e quarantene svuotano le sale. Ho visto piangere gente che non piange mai: ma per Luigi sì, per Luigi, accidenti, sì. L'ultima volta che ci siamo scritti mi ha ringraziato per una recensione che avevo appena pubblicato: mi ha detto, «ottima medicina». Avrei voluto lo fosse davvero, che bastasse così poco. E invece no. Invece sabato mattina il cinema ha perso Luigi Lagrasta, 73 anni, il presidente - e l'anima - del cineclub d'Azeglio: la vecchia sala parrocchiale, praticamente abbandonata, che quasi 50 anni fa, con alcuni amici, aveva riportato alla vita. Trasformandola in uno dei principali poli e presidi culturali della città, un vero faro in un Oltretorrente che aveva bisogno di luce. Un passato in Barilla, a cui rimase fortemente legato, e, da sempre, quella magnifica ossessione per il grande schermo: «colpa» degli ingressi omaggio che regalavano a suo padre. Lui i suoi tre fratelli si dividevano a coppie: andavano in due cinema diversi e poi si scambiavano le tessere. Per vedere due film al giorno. Chi lo conosce lo sa: al cinema ha dato tutto. Tempo, passione, forse anche qualche attacco di bile. E pazienza se un brutto giorno la pandemia ha fatto chiudere le sale, che nemmeno la guerra c'era riuscita: «Dobbiamo combattere, dobbiamo resistere», diceva. Lui lo ha fatto sempre, tutta la vita: perché per questo gentiluomo cortese, signore d'altri tempi dall'ironia affilata e dai modi garbati, grande esperto d'arte e amico degli animali, il cinema non era un hobby, ma una missione. Era tra quelli (e noi con lui) che credeva ancora al rito collettivo della sala, alla proiezione come elemento aggregante, dal valore non solo culturale ma sociale. Altro che lo streaming, altro che le piattaforme con i film da vedere mentre si messaggia e il telecomando per schiacciare il tasto «pausa» per andare in bagno. Una delle ultime volte che ho visto il D'Azeglio strapieno è stato lo scorso novembre, quando Alessandro Borghi ha ritirato il Premio Schiaretti: una sua invenzione, un riconoscimento, dedicato a un nostro indimenticato collega, attraverso il quale Lagrasta era riuscito a portare a Parma alcuni tra i più amati protagonisti del nuovo cinema italiano. Per Borghi, un vero evento, si erano prenotati in tantissimi: non ci sarebbe stato nulla di male, considerato le difficoltà odierne delle sale a causa del Covid, a fare pagare un biglietto. Ma Luigi ha detto no: «E' un regalo alla città». E di regali alla comunità, Lagrasta ne ha fatti tanti: non solo le serate tirate a lucido del premio Schiaretti, ma anche le molte rassegne dedicate alla Storia del cinema per le quali il D'Azeglio aveva ottenuto per tre anni consecutivi il primo premio dal ministero dei Beni culturali. Luigi chiedeva finanziamenti a istituzioni e aziende del territorio pur di potere fare entrare gratis gli spettatori. La cultura come servizio pubblico. Ricordo una proiezione di «Arancia meccanica»: una folla. In tanti restarono fuori. Dentro, in sala, il più vecchio avrà avuto 25 anni: tutti ragazzi. E Luigi, un po' commosso. Ma le iniziative che fanno onore a questo stacanovista del grande schermo, sono molteplici: dai film per gli «ex ragazzi» (gli over 55) al cineclub per i bambini. Rassegne dal forte valore sociale a cui Luigi teneva tantissimo. Uno dei suoi fiori all'occhiello, come i già citati «original ones», i film in lingua originale, appuntamento irrinunciabile. E poi la lunga attività per l'Acec dell'Emilia Romagna, l'associazione cattolica degli esercenti cinema. Nell'ultimo anno si era occupato anche del cinema Cristallo a Reggio Emilia e del Bellinzona a Bologna. Ma ora la sala è più vuota, la pellicola si strappa, il film ha un brutto finale: sta a noi renderlo migliore. Difendendo a spada tratta quell'idea di cinema per cui Luigi si è sempre battuto. E' il miglior modo per ricordarlo.

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2019, Protagonisti Filiberto Molossi 2019, Protagonisti Filiberto Molossi

Alessandro e gli altri: la meglio gioventù del cinema italiano

Alessandro e i suoi fratelli: dietro a Borghi, che bacia il David a dedica il premio come migliore attore italiano a Cucchi (e agli esseri umani), si muove e scalpita la meglio gioventù.

 In un momento critico per le sale (- 4,98% nel 2018) - vittime di una crisi che coinvolge tutta l'Europa (Gran Bretagna esclusa) - il cinema italiano guadagna consensi (incluse le co-produzioni gli incassi l'anno passato sono saliti del 23,8%) e, soprattutto, cambia pelle: moltissimi infatti gli attori e le attrici sotto i 35 anni che stanno prepotentemente prendendo la scena, imponendosi, spesso e volentieri, in prodotti di qualità. L'indiscusso numero uno di questa nuova ondata che ridisegna i connotati del nostro cinema (e non solo) è sicuramente Alessandro Borghi che, dopo tanta gavetta televisiva, lanciato da «Non essere cattivo», ha dimostrato un'incredibile versatilità, misurandosi con ruoli (e sfumature) molto differenti tra loro (dal disagio periferico del Chicano di «Fortunata» al martirio di Stefano Cucchi, fino al fango di un film-scommessa come «Il primo re»), portando, inoltre, avanti una carriera parallela (e densa di soddisfazioni) nelle serie, mostrando non solo il muso duro della Roma di «Suburra», ma cullando il sogno di una notorietà internazionale grazie a «Devils», girato in inglese.

MARINELLI E COMPAGNIA 

A giocarsela con Borghi, a quel livello lì, è per ora solo Luca Marinelli, che con Alessandro è amico e condivide uno dei titoli migliori della carriera di entrambi, «Non essere cattivo», film testamento di Claudio Caligari. Dopo essersi fatto notare con «La solitudine dei numeri primi», Marinelli - premio Schiaretti qualche giorno fa qui a Parma - ha firmato una lunga serie di interpretazioni frastagliate e mai banali, da «Tutti i santi i giorni» a «La grande bellezza», fino al De Andrè televisivo: ma l'abbraccio del grande pubblico arriva con il cattivo de «Lo chiamavano Jeeg Robot». 

Dietro, crescono in tanti: penso al Simone Liberati di «Cuori puri» (e de «La profezia dell'armadillo», dove ha rivelato una tenera vena comica) e ai due ragazzi de «La terra dell'abbastanza», Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano: lanciatissimo specie quest'ultimo che, appena 24enne, dopo «Tutto quello che vuoi» (dove scopriva la poesia grazie a Montaldo) si prepara a diventare un calciatore ne «Il campione» in cui terrà testa a Stefano Accorsi.

 Ma sono molti i nomi da tenere d'occhio: Andrea Lattanzi di «Manuel», film piccolo ma molto apprezzato, al figlio di Castellitto (e della Mazzantini), Pietro, Alessio Lapice (con Borghi ne «Il primo re»). E altri due che fanno (molto) sul serial: Salvatore Esposito, il Genny Savastano di «Gomorra» e Giacomo Ferrara, lo «Spadino» di «Suburra».

RAGAZZE VINCENTI

Attori sì, ma anche (soprattutto?) attrici: il ricambio generazionale del nostro cinema passa anche attraverso a una serie di interpreti agguerritissime che non si fanno mettere i piedi in testa dai colleghi uomini. E restano bene aggrappate al centro dell'inquadratura. A correre verso il successo «Veloce come il vento» è la 23enne Matilda De Angelis che, lanciata da Matteo Rovere, ora si appresta a interpretare la fata Turchina per il «Pinocchio» di Garrone e a girare una mini serie negli States. Chi lavora senza pausa è Ileana Pastorelli, altra scoperta di «Jeeg» e poi molto vista accanto a Verdone e ora nel cast delle «Brave ragazze» dirette dalla Andreozzi. Unico rischio per l'ex gieffina? Essere sempre troppo uguale a se stessa. Attivissima anche un'altra over 30, Greta Scarano, gli occhi segnati e una carriera che si divide tra cinema («Suburra» e «Smetto quando voglio) e parecchia tv. Tra le più interessanti c'è anche «La ragazza del mondo» Sara Serraiocco, classe '90, un'altra che - grazie alle serie («Counterpart» in questo caso) - ha caratura internazionale. Viene dal teatro (anche il nostro Due) e dà l'idea di potere arrivare lontano, Matilde Gioli, attivissima, da “Il capitale umano” a “I moschettieri del re” e poi, l'intensa Linda Caridi di «Ricordi?», mentre stanno sgomitando ma meritano la prima fila anche la Daphne Scoccia vista in «Fiore» di Giovannesi, che la scovò in una trattoria dove faceva la cameriera e Selene Caramazza di «Cuori puri». Discorso a parte per Miriam Leone: ex Miss Italia, ha dimostrato a più riprese di non avere sfondato solo perché bellissima. Credibile sia nella commedia che nel dramma, ha dato il suo meglio nel ruolo di Veronica Castello nelle serie dedicate a Tangentopoli, «1992» e «1993» a cui seguirà a breve «1994». Nel gruppo, infine, anche Valentina Bellè, la Fulvia di «Una questione privata» (e Lucrezia de «I Medici») e Tea Falco, scoperta da Bernardo Bertolucci in «Io e te».

L'UNDER 21

C'è una vera e propria nazionale di giovanissimi che si sta facendo largo nel cinema italiano: formidabili ad esempio «L'amica geniale» Gaia Girace e Francesco Di Napoli de «La paranza dei bambini», 15enni cresciuti all'ombra del Vesuvio. Le «Indivisibili» Angela e Marianna Fontana piacciono (specie quest'ultima, vista anche in «Capri-Revolution») moltissimo, mentre il 21enne Adriano Tardiolo  deve dimostrare che non è l'attore di un solo («Lazzaro felice») film. Cosa che è già riuscita a fare Blu Yoshimi, dopo «Piuma» ora sugli schermi con «Likemeback», dove c’è anche la bellissima Denise Tantucci, una delle ragazzine dei “Braccialetti rossi”. Crescono, nelle fila dei govanissimi, anche la 17enne parmigiana Noa Zatta e il 2000 Ludovico Girardello, che hanno diviso il set de «Il ragazzo invisibile 1 e 2». Infine, le lolite di «Baby»: Alice Pagani e Benedetta Porcaroli. La serie sulle studentesse prostitute è piaciuta poco: ma soprattutto Alice - voluta da Sorrentino per «Loro» - può trovare il suo paese delle meraviglie.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Nella Napoli velata i fantasmi di Ozpetek

E' pieno di fantasmi, di ombre, di ricordi rimossi, di segreti taciuti, nascosti in un armadio sempre chiuso, dimenticati volutamente nella soffitta del destino, il cinema di Ferzan Ozpetek, in bilico tra il lutto (da elaborare, affinché la vita si faccia strada di nuovo) e il mistero della perdita, sempre alla ricerca di risposte difficili da condividere, eppure pronto, non senza sofferenza, a squarciare quel velo (o quello schermo?) che ci separa da una realtà a volte troppo dolorosa da comprendere, ma soprattutto da accettare. Inizia su una scala che è insieme vertigine, segno psicanalitico  e omaggio a Hitchcock per poi smarrirsi volontariamente nelle strade di una Napoli borghese e arcana, erotica e barocca, pagana e mistica, carnale ed esoterica, il nuovo film del turco d'Italia: che segue con apprensione Adriana (Giovanna Mezzogiorno), medico legale che trascorre una notte di passione con Andrea (Alessandro Borghi, lanciatissimo), un ragazzo più giovane conosciuto la sera stessa. I due decidono di rivedersi il giorno dopo, ma l'uomo non arriverà mai all'appuntamento: barbaramente ucciso apparentemente senza motivo...

Occhi che guardano senza essere visti ma senza nemmeno vedere, occhi chiusi, occhi rubati, morti, scolpiti: là dove la verità, chiara ma non provata, resta leggenda e il dubbio si insinua nelle vie tortuose della mente, Ozpetek gira un thriller esistenziale che indulge troppo al simbolismo, un giallo dove l'indagine è soprattutto interiore, un viaggio tortuoso in cui la protagonista sarà costretta a prendere coscienza delle proprie fragilità.

Il regista di <Saturno contro> e <La finestra di fronte> gestisce benissimo gli spazi, i pieni e i vuoti di una città di cui si appropria - un autobus, le scale mobili, le stanze di un museo...: (non) luoghi dove rimbombano solitudini e ossessioni -, ma si perde in divagazioni narrative non particolarmente riuscite, attratto inoltre da un grottesco poco funzionale all'ambiguità della storia. Ozpetek, va detto, non cerca scorciatoie, se può anzi si complica (coraggiosamente) la vita: ma inciampa d'altro canto nel tema (stravisto) del doppio, annacqua la bellezza di certi piani sequenza con i limiti di una sceneggiatura poco compatta. Peccato perché il film cresce nel finale, che l'autore cuce (con astratto realismo) con precisione e maestria: ma quel rumore di tacchi che si perde nel nulla è la promessa invisibile di una carezza mancata, di un desiderio non completamente appagato.

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2015, Recensione Filiberto Molossi 2015, Recensione Filiberto Molossi

Pioggia lurida su Roma: in Suburra il romanzo criminale di Mafia capitale

Piove su Roma, piove senza sosta, continuamente, incessantemente. Come un sottofondo che sfinisce di una nota sola, nella notte che sembra non dovere terminare mai. Piove, perché pare non possa fare altro, sulla città eterna, sulla capitale senza più morale, sui boss di periferia con vista mare, sui politici corrotti e arricchiti, sugli zingari cravattari che ora alzano la cresta. E' pioggia sporca, lurida, che non monda nessun peccato, forse perché a questo punto sono troppi: mentre un Papa si fa da parte e tutti gli altri vogliono invece essere al centro della scena. E reclamano un pezzo della torta, una fetta, una briciola almeno.

E' un film amaro, dissoluto e vendicativo, privo di un personaggio positivo, di un bagliore etico, del miraggio di un riscatto, <Suburra>, l'affresco in nero che Stefano Sollima (il regista di serie cult come <Romanzo criminale> e <Gomorra>) dedica a suo padre Sergio (quello di <Sandokan> e di diversi spaghetti western), tra mance troppo generose, mapping, mignotte, droga, esecuzioni fatte passare per incidenti, feste, mazzette, minacce, morti male o malissimo. Un quadro deprimente – e soprattutto decadente – figlio del libro profetico di Bonini e De Cataldo, capace di anticipare la recente vergogna di Mafia capitale, con la realtà che, come da copione, ha finito col superato la fantasia.

In ballo c'è una grossa speculazione sul litorale: hotel, casinò, ristoranti...Soldi, tanti soldi. Cosa nostra si muove affidandosi a un ex della Magliana, duro vero che tira i fili di una città che ormai persino lui fatica a riconoscere. Ma la morte di una prostituta porterà a conseguenze inimmaginabili anche per chi fa del crimine un mestiere e sfoggia con arroganza la sua (solo presunta) impunità.

Cupo, ritmatissimo, notturno, abbandonato, <Suburra> punta al ritratto d'insieme, ma fatica a farci amare o odiare veramente i personaggi in gioco, rivelando a tratti in modo scoperto (quell'esigenza di riassumere anche quello che non si è detto) la sua natura <telefilmica> (l'anno prossimo diventerà una serie per Netflix, l'Internet tv appena sbarcata in Italia); Sollima, che dai lavori che l'hanno reso famoso prende in prestito le tonalità, la medesima consistenza della <pasta> visiva, dimostra però, aggirandosi senza paura nel Far West metropolitano, di essere un regista vero (vedi la sparatoria nel supermercato: un momento di grande cinema di genere), energico, tosto. Capace di tenere testa anche a un gruppo di attori motivati. Tra cui brilla soprattutto la nuova stella di Alessandro Borghi: se in <Non essere cattivo> Marinelli rischiava di oscurarlo, qui è lui a suonarle a tutti.

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