La chimera, il cinema libero di Alice Rohrwacher
Forse sì, forse Alice Rohrwacher mi piace più dei suoi film. Mi incanta proprio lei, quando ad esempio per spiegare la persistenza dell’amore - e la crudeltà dell’assenza - dice che i suoi personaggi sono come piante che cercano nell’altro le proprie radici. O ancora quando per raccontare quale lampo ha acceso il suo ultimo lavoro, dice: «Volevo fare un film libero: liberarmi da tutte queste catene della narrazione che vediamo nelle piattaforme. Il cinema deve liberare, il cinema non ha ganci».
Difficile non stare dalla sua parte, non riconoscersi, nonostante la distanza, in qualche modo, non sentirsi attratti da quel suo stile insolito e inclassificabile, «tra l'estasi e l'arcano» con cui non sempre è facile entrare in sintonia, eppure bizzarro e disarmonico e proprio per questo affascinante. Là, in una continua ricerca di utopia, nel canto di una civiltà rurale che comincia a cedere il passo (sono gli anni '80) ai simboli di un progresso inquietante, tra oggetti che non sono fatti per gli occhi degli uomini, ma solo per quelli dei morti.
Un film, «La chimera» (apprezzatissimo anche nell’anteprima del Parma Film Festival) più che sull'elaborazione del lutto sull'impossibilità di accettarlo, in quella Toscana etrusca e sospesa dove si ruba anche alle anime. Come i tombaroli protagonisti della pellicola, una banda di (simpatici in realtà) profanatori che fanno soldi coi reperti antichi: quelli che trova un misterioso inglese, archeologo rabdomante (Josh O' Connor, il fantastico giovane principe Carlo di «The Crown») che, persa la donna che amava, cerca la porta che conduce nell'aldilà per ritrovarla...
Sulla falsariga del mito di Orfeo e Euridice, un film dove il sopra e il sotto, l'aldilà e l'al di qua, non smettono mai di comunicare, spazi attigui (per) sempre connessi, collegati da un filo rosso, mentre l’umanità insegue le sue chimere (per i tombaroli il denaro, per l'archeologo un amore che ha perso), i propri desideri irrealizzabili, provando a dare un prezzo anche a quello che, per sua stessa natura, non può averlo.
La Rohrwacher desatura i colori per spolverare la memoria degli anni Ottanta, mescola 16 e 35 millimetri, assiste - non inerte - al trionfo del materialismo, quando anche il «sacro« diventò «merce»: rievoca luoghi personali, la comfort zone da cui nasce la sua stessa idea di cinema, di cui coglie l’arcaica mitologia, per arrivare ovunque, a Cannes (dove il film non ha avuto premi ma recensioni molto positive) come a Hollywood. La realtà snatura nella fiaba, l’elegia popolare sfuma nella leggenda: e nel mistero di un volo di uccelli, sulle note di Battiato, cerca oltre che una geometria esistenziale anche il suo destino.