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Challengers, un cinema del desiderio che impone il suo gioco

Questo film è molto figo: non so dirvelo in altro modo. Forse perché costringe, con acrobatica geometria, un triangolo sul rettangolo di uno sport che non si fa mai in tre, ma di solito in due e al massimo in quattro. O forse perché, tra smorzate/ralenti sinuose e improvvise - e furiose - accelerazioni a incrociare, impone all'avversario (leggi a noi...) il suo gioco. O forse, semplicemente, per quel suo stile liquido, rock, morbido, fluido, mai, davvero, represso. O magari, probabilmente, per tutti questi motivi insieme.

Dello sfacciato Guadagnino mi piacciono diverse cose: ma più di tutto che sta due metri dentro il campo e picchia forte. E mica ha paura di girare l'ironico (ma pur sempre melodrammatico, come solo un tie-break sa essere) «Jules e Jim» della terra battuta, inseguendo i suoi dreamers 2.0 (ogni riferimento a Bertolucci, quando si tratta del regista di «Chiamami col tuo nome», non è mai puramente casuale) fino all'angolo dove due righe decidono di baciarsi. Proprio là, dove il cuore batte e il sudore cola: nell'eterno sospeso di un 40 pari in cui non vince nessuno. Ma ogni colpo libera energia, fatica, rimpianto. E' puro cinema del corpo, del desiderio: per una donna, per una vittoria, per un passato che non torna. O forse, invece, sì.

Pronto da settembre, quando avrebbe dovuto inaugurare la Mostra di Venezia, e arrivato in sala solo adesso nel pieno dell'effetto Sinner, «Challengers» non è però un film sul tennis: è un film sexy. Irresistibilmente sexy. Ma che sa essere spietato. E, soprattutto, sincero. Ellittico menage a trois chiuso dentro al tempo di una partita, nel continuo, instancabile, correre avanti e indietro nel tempo, in una costruzione a flashback che si rivela molto efficace, l'ultima fatica di Guadagnino racconta di Tashi, ragazza prodigio della racchetta e dei due campioni in erba - Art e Patrick, amici per la pelle - che si innamorano di lei: un legame, che tra strappi e (non) scelte, vittorie e sconfitte, prosegue per anni...

Certo, mentre il vento soffia e l'attrazione gioca il suo match point, lo sport si fa metafora: ma il regista italiano coccolato da Hollywood non ha paura di tirare i colpi e trasforma un progetto su commissione in un'opera personalissima dove il tennis «è una relazione, è una storia d'amore. E' capirsi». E forse è la ragione stessa per cui un giorno Agassi e la Graf affittarono un campo e si presero a pallate in una scena di un film che Garrone, probabilmente e purtroppo, non girerà mai.

Ultra seduttivo, pompato dal ritmo martellante, da discoteca, della strepitosa colonna sonora, «Challengers» si muove tra primissimi piani plastici e mani che si sfiorano senza rete, trovando nel trio dei (bravissimi) protagonisti l'eccitante ambiguità della sua stessa essenza pop. E se i «duellanti» Josh O' Connor (il Carlo di «The Crown» visto anche in «La chimera») e Mike Faist (West Side Story) fanno a gara per superarsi, alla star di «Euphoria» e «Dune» Zendaya basta darsi la crema sulle gambe per ricordarci che il mondo non è poi un brutto posto dove stare. Gioco, set, incontro.

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La chimera, il cinema libero di Alice Rohrwacher

Forse sì, forse Alice Rohrwacher mi piace più dei suoi film. Mi incanta proprio lei, quando ad esempio per spiegare la persistenza dell’amore - e la crudeltà dell’assenza - dice che i suoi personaggi sono come piante che cercano nell’altro le proprie radici. O ancora quando per raccontare quale lampo ha acceso il suo ultimo lavoro, dice: «Volevo fare un film libero: liberarmi da tutte queste catene della narrazione che vediamo nelle piattaforme. Il cinema deve liberare, il cinema non ha ganci».

Difficile non stare dalla sua parte, non riconoscersi, nonostante la distanza, in qualche modo, non sentirsi attratti da quel suo stile insolito e inclassificabile, «tra l'estasi e l'arcano» con cui non sempre è facile entrare in sintonia, eppure bizzarro e disarmonico e proprio per questo affascinante. Là, in una continua ricerca di utopia, nel canto di una civiltà rurale che comincia a cedere il passo (sono gli anni '80) ai simboli di un progresso inquietante, tra oggetti che non sono fatti per gli occhi degli uomini, ma solo per quelli dei morti.

Un film, «La chimera» (apprezzatissimo anche nell’anteprima del Parma Film Festival) più che sull'elaborazione del lutto sull'impossibilità di accettarlo, in quella Toscana etrusca e sospesa dove si ruba anche alle anime. Come i tombaroli protagonisti della pellicola, una banda di (simpatici in realtà) profanatori che fanno soldi coi reperti antichi: quelli che trova un misterioso inglese, archeologo rabdomante (Josh O' Connor, il fantastico giovane principe Carlo di «The Crown») che, persa la donna che amava, cerca la porta che conduce nell'aldilà per ritrovarla...

Sulla falsariga del mito di Orfeo e Euridice, un film dove il sopra e il sotto, l'aldilà e l'al di qua, non smettono mai di comunicare, spazi attigui (per) sempre connessi, collegati da un filo rosso, mentre l’umanità insegue le sue chimere (per i tombaroli il denaro, per l'archeologo un amore che ha perso), i propri desideri irrealizzabili, provando a dare un prezzo anche a quello che, per sua stessa natura, non può averlo.

La Rohrwacher desatura i colori per spolverare la memoria degli anni Ottanta, mescola 16 e 35 millimetri, assiste - non inerte - al trionfo del materialismo, quando anche il «sacro« diventò «merce»: rievoca luoghi personali, la comfort zone da cui nasce la sua stessa idea di cinema, di cui coglie l’arcaica mitologia, per arrivare ovunque, a Cannes (dove il film non ha avuto premi ma recensioni molto positive) come a Hollywood. La realtà snatura nella fiaba, l’elegia popolare sfuma nella leggenda: e nel mistero di un volo di uccelli, sulle note di Battiato, cerca oltre che una geometria esistenziale anche il suo destino.

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