Le occasioni dell'amore: fino al prossimo addio
Un uomo, una donna: e quello che resta. E a cui ci si aggrappa. Come un ricordo dimenticato in un cassetto mai davvero svuotato. Come un addio che è tale solo fino ala prossima volta. E' un film molto bello sulla persistenza dell'amore, del sentimento, questo: sull'inespresso, sugli sguardi che non hanno bisogno di parole: e sul rimpianto, che, comunque la giri, è sempre una questione romantica. Ma forse «era così che doveva andare».
Un famoso attore di cinema (Guillaume Canet), in fuga ignominiosa dal suo debutto teatrale, si rifugia in un albergo specializzato in talassoterapia, in Bretagna: dove scoprirà che vive anche una donna (Alba Rohrwacher) che ha molto amato (e lasciato) una quindicina di anni prima...
Grande narratore di un cinema che ha come fulcro il mondo del lavoro (da «La legge del mercato» a «Un altro mondo»), il francese Stéphane Brizé questa volta cambia sorprendentemente l'oggetto del suo interesse (anche se il motore del film è pur sempre e non a caso una crisi professionale, che diventa personale) per girare, attraverso impercettibili movimenti di macchina e invisibili aritmie, un film struggente, oltre che privato, personale, intimista.
Dove, in un non luogo, sospensione sentimentale del tempo andato, la reminiscenza della passione si riflette anche su un presente fatto di scelte altre: prima che sia il momento di dirsi un altro addio.
Visse d'arte, visse d'amore: Maria, gli ultimi giorni della divina Callas
Si esibiva per la domestica, imbottendosi di psicofarmaci e costringendo il fedele maggiordomo a spostare continuamente un piano che nessuno suonava più. E sulle note struggenti della «Tosca», lei che davvero «visse d'arte, visse d'amore», inseguiva una voce irripetibile, smarrita negli anni, nelle ferite, nella fatica. Mentre la Callas stava svanendo e restava solo «Maria». E' bello sin dall'inizio - che poi è la fine, di una donna e di un'epoca - il nuovo film di Pablo Larrain, il grande regista cileno che racconta gli ultimi sette giorni della divina: con quel movimento d'ingresso lentissimo e tutto che accade - anzi è già accaduto - sullo sfondo.
Capitolo conclusivo della trilogia che ha dedicato alle grandi donne del secolo scorso - regine tristi prigioniere del loro stesso mito - l'autore, dopo Jackie Kennedy e Lady D, mette in scena l'ultimo atto dell'icona mondiale della lirica, usignolo che non volle mai lasciare la propria gabbia. E ne fa un personaggio tragico quanto le sfortunate eroine - Norma, Violetta, Madama Butterfly e tutte le altre - che interpretò, sul palcoscenico. Un'identificazione quasi commovente, perno di un film che accompagna una leggenda che amava essere adulata sul viale del tramonto, rielaborandone la storia, in modo assai più originale della media dei biopic, attraverso un'intervista immaginaria e momenti onirici che riportano improvvisamente l'artista, in quel momento lontana dalle scene già da oltre 4 anni, sotto i riflettori della sua fantasia.
Stilisticamente molto raffinato, elegante, capace di mescolare, complice un montaggio elaborato ma mai fine a se stesso, finto documentario, immagini di repertorio, bianco e nero e colore, flashback e sogno, cogliendo solitudine, grandezza e fragilità (dal rimpianto per Onassis a un'infanzia, crudele, in Grecia) di una donna osannata ovunque che morì, sola, ad appena 53 anni, «Maria» non è però solo il canto del cigno e l'uscita di scena di un'artista inimitabile, ma anche un film-opera sul significato (e sulla condanna) di essere diva, immortale tra i mortali, eppure vulnerabile e come loro soggetta alle offese del tempo, agli schiaffi del destino.
Vero fanatico della lirica, la sua grande passione insieme al cinema, Larrain, in un cast internazionale che conta anche i nostri Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher e Valeria Golino, regala il ruolo della vita ad Angelina Jolie (candidata al Golden Globe), intensa e sofferta nell'abbracciare il crepuscolo nelle quinte dell'amarezza: d'altra parte, «la felicità non ha mai prodotto una bella melodia».
Tre piani, con Nanni Moretti nel condominio della vita
Favorisca i sentimenti. I detrattori dicono che sia invecchiato, che col tempo abbia perso grinta, smalto: e qualcuno addirittura, uscendo, si domanda cosa gli sia successo. Eppure non c'è stanchezza, e noia neppure, in quel suo sapere cogliere l'equilibrio fragilissimo delle cose, il caos calmo di un'epoca smarrita. E' vero, manca l'ironia: ma nel mettere ordine tra quello che non cambia mai, prima che sia tutto diverso, ci sono le tracce di un film doloroso eppure aperto alla vita, alla pietà, un film sul perdonare e sul perdonarsi, un film sulla difficoltà (tra marito e moglie, tra padri e figli, tra fratelli...) di comunicare, di ritrovare la lingua perduta o resa vana degli affetti. Mette in scena un'umanità logorata, sola, prigioniera delle sue ossessioni, Nanni Moretti, che chiude il mondo su soli «Tre piani», per raccontare, con un'amarezza che non cede alla disperazione, le vicende destinate a intrecciarsi di alcune famiglie che abitano nello stesso condominio. Attraversato dal disagio, dal malessere, dal dubbio, «Tre piani», costruito su tre differenti movimenti (ognuno separato dal successivo da 5 anni), è un film fatto di abbracci e separazioni, di colpe e di accuse infondate, di assenze e di incomprensioni: uno spaccato borghese corale e polifonico che il regista di «Caro diario» ha tratto dall'omonimo romanzo dell'israeliano Eskhol Nevo, spostando l'azione da Tel Aviv a Roma, esaltandone gli elementi universali come la responsabilità delle scelte, il senso di giustizia, la responsabilità di essere genitori. Il tutto muovendosi verso l'incontro, la riappacificazione, un senso di comunità che credevamo perduto. O di cui pensavamo di non avere bisogno. Un film, «Tre piani», che ha un inizio folgorante (come una frustata) e poi paga una certa disomogeneità nella recitazione (cast di tutte stelle: oltre allo stesso Moretti, la Buy, molto brava, la Rohrwacher, Scamarcio e tanti altri), ma soprattutto alcuni passaggi non completamente a fuoco (è la prima volta che Moretti non utilizza un suo soggetto, e si vede) o comunque non sfruttati a dovere, della sceneggiatura. C'è, di fondo, un problema di intonazione: eppure resta profondo lo sguardo e il disincanto di un autore che sa che il futuro - ma pure il presente - è donna e come pochi conosce e sa raccontare la debolezza e la precarietà di quello che siamo.
Lacci, quell'ipocrita e tossico stare insieme
Ha ragione Daniele Luchetti: «Sbagliano tutti». I mariti, le mogli, persino i figli. E, a volte, pure i registi. Perché è pur vero che non è difficile riconoscersi nel lessico familiare di «Lacci», nei suoi rimorsi, nei suoi rancori: il problema, se mai, è quello di trovare entusiasmo nel rapportarsi a un film che alla fine è più borghese del contesto che racconta e al tormento un po’ ipocrita di un cinema che non perdona l’altrui disagio ma non sa dare un nome e un senso al proprio. Proposto, in modo sin troppo audace, in apertura dell'ultima Mostra del cinema di Venezia (un onore-onere di cui la pellicola ha beneficiato solo in parte, non essendo, per caratteristiche proprie, particolarmente adeguata al compito), l’ultimo lavoro di Luchetti, altrove regista sensibile e ispirato («Il portaborse», «La nostra vita»), fatica a conquistare un pubblico che già ha i problemi suoi, figurati se ha voglia di accollarsi anche quelli degli altri. Così, se al minuto 37 cominci a guardare l’orologio, provando un certo fastidio per la concezione teatrale, i dialoghi sin troppo letterari (al limite del sentenzioso) e quell’indugiare, non particolarmente utile, sui primissimi piani, è abbastanza evidente che qualcosa non è scattato. E che difficilmente scatterà dopo. Ritrovato Domenico Starnone (l’autore del romanzo di successo da cui è tratto il film) a 25 anni dalla fortunata esperienza de «La scuola», il regista di «Mio fratello è figlio unico» mette in scena l’anatomia di una coppia (e l’autopsia di un matrimonio) tra momenti di trascurabile infelicità scanditi in due movimenti temporali: i primi anni ‘80, quando Aldo, due figli piccoli e un lavoro in radio, confessa alla moglie Vanda che si è innamorato di un’altra donna (una giovane e bella collega), e il presente quando i due, nonostante tutto, sono ancora insieme. Efficace quando più che alle parole («per stare insieme bisogna parlare poco») si affida ai gesti e all’espressività di sentimenti altrimenti troppo caricati ed esposti (quelle litigate mute, viste dietro a un vetro di imbarazzato silenzio), «Lacci», poco aiutato da un cast peraltro prestigioso (da Luigi Lo Cascio ad Alba Rohrwacher, da Silvio Orlando a Laura Morante: ma la più convincente e in parte è la giovane Linda Caridi), coglie con una certa verità la debolezza, il cinismo e la vigliaccheria maschile (e l’incapacità di sottrarsi dalla propria quotidianità), risultando a tratti però presuntuoso, nonché affaticato nel rincorrere le conseguenze di un amore tossico che segna tutti i personaggi. Vittime di una riconciliazione che è un atto di masochistica lealtà: moralmente corretta, ma profondamente disonesta.
Magari, ritratto di famiglia con bassotto
L'età della scoperta, il crescere smozzicato e «un motivo che scricchiola in mezzo ai denti»: ritratto di famiglia con bassotto, virato al colore delle fotografie ingiallite, quelle che avevi dimenticato anche che esistessero e poi un giorno saltano fuori da un cassetto che non pensavi avresti mai più riaperto. C'è un po' del cinema di Valeria Bruni Tedeschi, «Sarà perché ti amo» e più di qualcosa di sè in «Magari», debutto semiautobiografico di Ginevra Elkann (sorella minore - togliamoci il dente subito - di John e Lapo), autrice sensibile che prende per mano il ricordo di un'infanzia sradicata, con troppi padri (che è come non averne nessuno), scombinata senza colpa (che è un attimo che ti ritrovi al mare con i Moon Boot ai piedi) per rimettere al centro di tutto chi di solito viene lasciato ai margini, i ragazzini. Ancora i bambini protagonisti - come in «Favolacce» (la cui contemporaneità dell'uscita non favorisce la 40enne regista) - nel cinema italiano, qualcosa di più di una semplice coincidenza: come se solo loro, e non noi, fossero in grado di raccontare con la necessaria onestà l'altro mondo, quello degli adulti, nella maggior parte dei casi (e pure con il beneficio del dubbio) caotici, cialtroni, vigliacchi, volubili, immaturi. Alma (sguardo e voce del film che ha inaugurato l'anno scorso il Festival di Locarno) ha 9 anni e con i suoi fratelli più grandi - in procinto di lasciare con la madre incinta e il suo nuovo compagno Parigi per il Canada -, si ritrova a trascorrere le vacanze invernali col padre, un regista italiano che non vede da un anno ma che spera ancora che un giorno possa rimettersi con mamma... Nell'ostinata ricerca di una normalità perduta, o addirittura negata, in quel scoprirsi più che speciali diversi, la Elkann gira un film molto borghese, ma garbato, onesto, tenero, spontaneo. Poi è vero: nonostante la regista diriga molto bene i tre giovani protagonisti (tutti esordienti come lei), sorretti e coadiuvati dai navigati Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, «Magari» resta un po' lì, sulla soglia dell'«anche i ricchi piangono», fatica a fare un salto in avanti, a liberarsi da codici narrativi abituali, comodi, Ma a forza di guardarsi indietro bisognerebbe essere bionici per non sentire la stretta e il lascito di quella maledetta malinconia.