2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Ad Astra: la solitudine di Brad Pitt tra le stelle

<Per aspera ad astra>

E sì, il percorso è disseminato di difficoltà, impervio è il cammino che porta lassù, dove <lucean le stelle>. Lo sapevano gli antichi: lo sa anche James Gray, gran cantore minimalista della quotidianità, che stavolta mira (molto) in alto partendo dal futuro per arrivare a quello che in realtà gli sta più a cuore: l'oggi, l'uomo, il <noi adesso>, dove assenza è ancora e sempre più acuta presenza.

Cerca un padre, ma ne ha moltissimi <Ad Astra>, il fanta film edipico e suggestivo che Gray ha portato di recente all'ultima Mostra del cinema di Venezia: ricorda <Apocalypse now> in quella sua ricerca nel profondo, ha tanto di <Interstellar> con cui condivide anche il direttore della fotografia), ma anche reminiscenze di <2001> (quel misterioso accarezzare la faccia filosofica del genere) e persino di <Strategia del ragno> (anche se nessun altro ve lo dirà); disseminato di richiami alti (alla cui altezza non sempre riesce a stare), si interroga sull'io, là dove il grande enigma più che <dove andiamo> è <chi siamo>.

Il governo ordina a un astronauta (Brad Pitt: ottimo il suo antidivistico lavoro di sottrazione) di partire al più presto per una missione segreta: deve ritrovare nello spazio il padre eroe che tutti credevano morto. E che ora, forse, sta minacciando la Terra...

Acclamato dalla critica Usa, <Ad Astra> è un film intimista ambientato paradossalmente nello spazio più infinito (la terra di nessuno della nostra coscienza), un dramma introspettivo che paga il confronto con <Gravity> (anche in termini, imprevedibilmente, di credibilità), ma che ha dentro sin dall’inizio un senso d’addio, una solitudine siderale e contemporanea, che è qualcosa che ci appartiene. E che, soprattutto, ci riguarda.

Read More
2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi

C’era una volta a…HOLLYWOOD: se la vita fosse un film

C’è una cosa straordinaria in quel genio che rispinde al nome di Quentin Tarantino: il fatto che, in fondo, sia un sentimentale. Uno che non solo ti reinventa da capo il cinema, ma fa lo stesso anche (ricordate la morte di Hitler in “Bastardi senza gloria?”) con la Storia, quella vera, quella brutta. E’ già tutto nel titolo: d’altra parte è noto - e uno come lui non può non saperlo - che il posto migliore per nascondere l’arma del delitto è là dove tutti possano vederla. Quel “C’era una volta” è una dichiarazione di intenti: perché là dove l’età dell’innocenza era finita davvero (e nel sangue), solo in un film - in una favola - può permettersi di durare in eterno. E allora se mistificazione deve essere, in fondo è a fin di bene: Tarantino non solo rimodella il cinema  a sua somiglianza, creando finte sequenze di film mai davvero girati, andando ben oltre la semplice citazione per arrivare alla reinterpretazione di un ricordo, di una reminiscenza, di un sentimento; ma permette al cinema stesso di  cambiare il corso degli eventi. Forse perché, complice  l'assoluto, sincero, strabordante - e se vogliamo anche ingenuo – amore che il regista de <Le Iene> nutre per la settima arte, sa benissimo che sarà sempre più accogliente e sicura una sala cinematografica dove una ragazza giovane e bionda può allungare i piedi nudi sulla poltrona davanti di  quel mondo, crudele e assurdo, là fuori. 

<Niente spoiler>,raccomanda Quentin, ma mica è facile: perché bisognerà pur dire che il film più atteso dell’anno, ambientato in un coloratissimo e stilosissimo 1969, è l’affresco, nostalgico e irresistibile di un autore alla ricerca del tempo perduto: una seducente e rutilante giostra, imbottita di canzoni, dettagli e memorabilia, con cui l'autore di <Pulp fiction>  risuscita anche i morti (cinema compreso) caricandosi sulle spalle la mitologia hollywoodiana, a costo di preferire al drone il vecchio dolly.  

Bizzarro ed extra cool, <C'era una volta a... Hollywood> è la storia dell’amicizia tra un attore di western di serie B (Tarantino potrebbe essersi ispirato a Ken Clark, ma più probabilmente il suo protagonista è la summa di più personaggi) e il suo stunt-man, nel periodo in cui Charlie Manson e la sua <family> progettano di uccidere l’attrice Sharon Tate...

Un film divertente, pazzo, affettuoso dove più che l’intreccio - quasi invisibile - contano i personaggi, il contesto, lo stile, le star (sono della partita i calibri più grossi: Leo DiCaprio, Brad Pitt e una Margot Robbie mai così bella...), quell’empatia che si instaura con uno spettatore capace di perdonare al regista  una certa autoindulgenza, il tono abitualmente compiaciuto di chi, oltre agli altri, cita volentieri anche se stesso. Ma <C'era una volta a ...Hollywood>, d’altra parte, non nasconde i difetti e, magnificamente irresponsabile, vive anche di splendidi eccessi: il carattere ultra divistico (quando Brad Pitt si toglie la maglietta viene giù la sala...), le sequenze stracult (fantastica quella in cui Brad viene sfidato da Bruce Lee, ma anche il dialogo tra DiCaprio e una bimba prodigio di 8 anni che usa il <metodo>), il feticismo, ne fanno un’ode all’epoca in cui sogni sembravano (forse a causa dell'Lsd?) più veri. 

Nel suo delirio ultra cinefilo, Tarantino ci mette tutto: il western, Dean Martin, stacchi alla nouvelle vague, Al Pacino e Luke Perry, riposi in pace: a volte forse il film manca un po' di ottani, ma vale la pena attendere il finale, pirotecnico e irresistibile, da applausi a scena aperta. Il metacinema prende il sopravvento sulle frustrazioni personali, la macchina da presa riscrive ciò che è stato: la vita non è un film, ma sarebbe meglio che lo fosse.

Read More
2019, Classifiche, Festival Filiberto Molossi 2019, Classifiche, Festival Filiberto Molossi

I 10 divi piu’ attesi Di Venezia

Più stelle che in cielo alla Mostra del cinema che si sta svolgendo a Venezia: ma chi sono i divi più amati e attesi? Eccoli:

1. BRAD PITT

La superstar assoluta, il divo per eccellenza del terzo millennio. Qui in veste di astronauta che nel fondo dello spazio cerca risposte. E suo padre.

2. MERYL STREEP

La più brava di tutte: la grande signora dalle 21 nomination all'Oscar. Mitica e impegnata politicamente, è anche simpaticissima. Un'icona vivente.

 

3. MICK JAGGER 

Quando è andato a Cannes hanno dovuto chiudere un'intera strada: il leader degli Stones si prepara a chiudere col botto la Mostra più rock di sempre

 

4. JOAQUIN PHOENIX

Uno dei più bravi in circolazione: sullo schermo sempre mostruoso, fuori carismatico, scostante, a volte insopportabile. E' la carta matta di questa edizione.

 

5. JOHNNY DEPP

Il fisico sta cedendo, la carriera vacilla: alle spalle, divorzi, separazioni e molti casini. Come si fa a non volergli bene?

6. SCARLETT JOHANSSON

Gli <Avengers> le hanno restituito una celebrità straordinaria: ora, nei panni di una moglie in crisi, prova anche a diventare grande. 

7.   JUDE LAW

E' nell'ultimo di Woody Allen e sarà nel prossimo di Coppola: nel frattempo è l'incredibile Papa americano di Sorrentino in una delle serie più cool degli ultimi anni.

 

8. KRISTEN STEWART

Dai blockbuster fantasy (deve tanto alla saga di <Twilight>) al prossimo <Charlie Angels>: ma nel mezzo, molte prove di cinema d'autore. Come la sua <Seberg>.

9. PENELOPE CRUZ

La favorita di Almodovar assaggia il concorso diretta da Assayas. Nel '94 vinceva il Festival di Bellaria: 15 anni dopo l'Oscar. Fate come lei: credeteci sempre.

 

10. CHIARA FERRAGNI

Ma come? E la Binoche, la Deneuve, Malkovich, Oldman, Chalamet e Gong Li, solo per citarne alcuni? Vero, ma la bionda cremonese può spaccare il Lido in due.

Read More
2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Se la strada potesse parlare: la dolcezza di Jenkins contro le ingiustizie

E' un film girato con grande delicatezza e movimenti di macchina che paiono carezze, <Se la strada potesse parlare>, il melò afroamericano con sottotesto politico che riporta al cinema Barry Jenkins, dopo l'Oscar vinto (a sorpresa) con <Moonlight>. Prodotto dalla Plan B di Brad Pitt e candidato a tre statuette, è la storia d'amore nella Harlem degli anni '70 tra la 19enne Tish e il fidanzato Fonny: lei aspetta un bambino, ma quando se ne accorge lui è già dietro le sbarre per un reato che non ha mai commesso... Nella società dei bianchi, dove nessuno (o quasi) ti affitta una casa se hai il colore sbagliato e <la partita è truccata>, Jenkins, inframmezzato il film di foto in bianco e nero, lavora benissimo sul colore, che usa in senso antirealistico, seguendo una precisa scelta estetica, antitetica eppure conforme, complementare, a ciò che racconta. E' il mood avvolgente di un film che, seppure non particolarmente appassionante, ha dentro di sè una grande dolcezza, quasi un imbarazzo: e anche davanti all'ingiustizia, alla sciagura, è teso - come in una delle sequenze più suggestive, quella del parto nell'acqua- alla speranza, all'amore, alla vita.

Read More
Festival, 2017, Recensione Filiberto Molossi Festival, 2017, Recensione Filiberto Molossi

Civiltà perduta: l'El Dorado di James Gray, esploratore ai confini del mondo

Era un uomo <con la mente aperta a qualsiasi eventualità>: eroico visionario, amico dei cannibali e degli uomini liberi, figlio di un padre il cui (non tanto buon) nome desiderava riscattare e padre di figli che a ogni ritorno stentavano a riconoscerlo, soldato di sua maestà dalla mira infallibile, esploratore di un mondo oltre i confini del mondo, di quell'universo misterioso e segreto che resta fuori dalle mappe, dalle cartine, persino dalla logica. Perché, in fondo, se non vai oltre a ciò che puoi afferrare che vivi a fare?

Se lo sarà chiesto un milione di volte – o forse una sola – Percy Fawcett, leggendario protagonista del secolo scorso, alle cui spedizioni senza precedenti (che dopo avere riscritto la geografia rischiarono di riscrivere anche la storia) un regista sensibile come James Gray ha dedicato <Civiltà perduta>, filmone virile e avventuroso sin troppo vecchio stile (alla David Lean, a tratti, ma senza la sua profondità di campo), eppure pervaso, scosso, dalla febbre dell'ossessione, con un certo fascino in quel suo sfinito perdersi, nel senso della scoperta, nell'arrivare lì dove nessuno prima di allora è mai stato.

Fawcett divenne famoso nei primi anni del '900 per le sue epiche spedizioni tra Brasile e Bolivia, in particolare per avere raccolto tracce dell'esistenza di un'antichissima popolazione progredita. Custode di una città che l'esploratore, non smettendo mai di cercarla, ribattezzò Z: un altro nome, forse, per dare un volto al mito di El Dorado...

Tra echi di <Fitzcarraldo> e <Aguirre> (ma anche di <Apocalypse now>), Gray risale il rio Don Diego (il film è stato girato in Colombia) per fare della sfida per la gloria anche l'affermazione, rivoluzionaria per l'epoca, dell'uguaglianza tra gli uomini tutti (e tra uomini e donne...), tradendo, in un invito alla comprensione degli altri che va al di là della lezioncina sul <buon selvaggio> come dell'arroganza di chi pensa di essere l'unico depositario della civiltà, una vocazione attuale e politica. E' il segno non superficiale di una pellicola che, per essersi messa in viaggio alla ricerca del significato dell'ignoto e del grandioso, avrebbe dovuto essere onestamente più fonda e avvincente, ma in cui si respira, con polmoni liberi da preconcetti, la nostalgia di un mondo ancora tutto da capire, da decifrare, molto prima di trip advisor e del navigatore satellitare...

Regista prettamente metropolitano che ultimamente ha allargato, con esiti disuguali, i suoi orizzonti (anche cinematografici), Gray dà una bella opportunità di mettersi in mostra a Charlie Hunnam, eletto a protagonista dopo il <no, grazie> di Brad Pitt (che ha prodotto però il film) e l'abbandono del progetto da parte di Benedict Cumberbatch, confermando anche la crescita (già certificata all'ultimo Festival di Cannes) di Robert Pattinson. Portando infine nella giungla, quasi come un talismano, anche un ex ragazzo del Pablo: il nostro Franco Nero.

Read More