Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Sieranevada: una nazione in stallo tra le quattro mura di casa

E' un film <costretto>, murato vivo tra le quattro pareti di una casa (dove, ovviamente, si lavano i panni sporchi), ingabbiato nei suoi stessi rancori, <Sieranevada>: scontro generazionale  e politico di un Paese affamato (di felicità, di novità...) ma in stallo se non addirittura morente, nazione depressa e delusa che cerca se stessa in cucina, prima di un pranzo che però non viene servito mai.

Strettissimo, cechoviano, insistente, <Sieranevada>, titolo volutamente non sense (<ero stufo delle brutte traduzioni>) di Cristi Puiu, uno dei registi più considerati del nuovo cinema romeno (tra i più vitali dell'intera Europa), osserva un gruppo di famiglia in un interno lasciando che il punto  di vista della cinepresa coincida con quello - invisibile ma ingombrante - del grande assente, il defunto che tutti sono venuti a ricordare.

Film bello sin da subito, con quel lungo e nervoso piano sequenza a mo' di prologo, che poi si muove per quasi tre ore, in unità di tempo e luogo, in spazi ridottissimi, in un continuo gioco di porte che si aprono e si chiudono sulla Storia e sulla vita, <Sieranevada> alza una pluralità di voci, tra riti,  tensioni, imprevisti: bravissimo nel gestire una ventina di personaggi, <perfetti conosciuti> che inseguono ancora (con teatrale sincronismo) l'utopia di una comunità chiamata famiglia, Puiu, classe '67, già vincitore a Cannes (nel 2005) di <Un Certain regard> (e in concorso al Festival l'anno passato, proprio con questa pellicola, ingiustamente dimenticata dalla giuria) aggira luoghi comuni e ipocrisie, trasformando in un'odissea anche il solo tentativo di trovare un equilibrio (e un accordo) intorno a un tavolo. Intenso, sempre sul punto rottura, in perenne bilico sull'imprevisto, il film è la metafora di un Paese bloccato, profondamente disorientato, e delle sue mille anime contrastanti: là dove il sogno tradito del dopo Ceausescu non rende meno amaro (anche se qualcuna, colbacco in testa e perle al collo, qualche rimpianto ce l'ha...) il ricordo della vita prima della rivoluzione.  E mentre alla radio passa  <Maledetta primavera>, è quanto mai probabile che se Dio tornasse sulla Terra il vero rischio sarebbe quello di non riconoscerlo.

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Personal shopper, il fantasma dell'io

E' un film sull'assenza, <Personal shopper>: degli altri - che sono <andati avanti> o, magari, non hanno abbastanza tempo, nonostante il loro mestiere sia <apparire>,  per  <esserci> -, ma anche di sè, di un io forse tradito,  smarrito in rimorsi e desideri inespressi, mortificati, castrati. Un'assenza che, anche in questo caso, è più acuta presenza: e diventa tormento, dubbio, inganno.

Accolto dai fischi alla proiezione per la stampa all'ultimo Festival di Cannes, ma poi successivamente applaudito dal pubblico e, soprattutto, premiato dalla giuria (con la Palma per il miglior regista), l'ultimo film, nato per dividere, di Olivier Assayas si avventura sul terreno minato dello spiritismo (scomodando, tra finti documentari e più autentiche suggestioni, artisti e intellettuali come Victor Hugo e Hilma af Klint) per mescolare nello stesso guazzabuglio elaborazione del lutto, crisi d'identità, alta moda, storie di fantasmi, deriva hi tech (con i dialoghi sostituiti dai messaggini di WhatsApp), giallo soprannaturale: il risultato a tratti è davvero  da brividi, ma non nel senso che si sarebbe aspettato l'autore.

Il quale, reduce dall'intrigante e assai profondo <Sils Maria> e pronto a tornare sul set niente di meno che con Stallone (non prima di avere firmato il copione dell'ultimo Polanski), porta sullo schermo la storia di Maureen (un'emaciata Kristen Stewart, intensa) che per lavoro sceglie gli abiti per una star del cinema e intanto attende un segno dal fratello gemello morto di recente. Ma un giorno un uomo misterioso la contatta via chat: cosa vuole? Cosa cerca?

Pasticciato e presuntuoso, nonostante non del tutto privo di fascino,  thriller esistenzialista (nei momenti peggiori ricorda <La corrispondenza>, il più recente e censurabile lavoro di Tornatore), <Personal shopper> invece di giocare maggiormente di astrazione evoca gli spettri senza paura di mostrarli, imponendosi all'attenzione solo nel momento in cui, aggirati gli schemi, mette a confronto la terrena e sensuale vanità  di abiti in grado  di fare sentire in colpa (perché le è vietato indossarli) la protagonista e il suo stesso  bisogno di spiritualità, la necessità di credere in un altrove, in qualcosa di diverso, di più.

Che poi quelle manifestazioni siano o meno una fantasia della ragazza è del tutto ininfluente: quel che conta è la riflessione sulla perdita, le ossessioni che lacerano, le ferite non rimarginabili. Quelle che lasciano cicatrici, che segnano: i film densi e, a volte, anche quelli sbagliati.

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2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Pudore e poesia: La tartaruga rossa in pace con il mondo

E' come ballare senza musica, a piedi nudi nella sabbia, quando ci si è detti tutto anche se non ci si è detti niente: un ultimo giro, prima che il tempo ricominci a camminare. C'è anche il nostro naufragio, gli sforzi inauditi per raggiungere un risultato infinitesimale, quel sentirci intrappolati nella solitudine di un ciclo perenne ne <La tartaruga rossa>: ma c'è soprattutto una (singolare, nei modi e nelle attenzioni) ricerca di pace, di serenità, che non è dettata tanto dalla rassegnazione quanto invece dalla conoscenza dei propri limiti e delle proprie possibilità, così come del giusto e del vero, nella ricerca di un'armonia che si traduce nell'ambizione silente di una felicità intima e semplice, là dove oltre l'orizzonte c'è solo il fastidioso rumore del mondo.

Spoglia le sovrastrutture del pensiero e riduce a sabbia primitiva gli inganni universali della frastornante modernità, la favola animata che, inseguendo il tratto antico e tenerissimo di una matita, segna, con delicatezza e poesia, la prima incursione del celebrato Studio Ghibli nel vecchio continente. Un film pieno di pudore, magico, lirico, limpido, che si annulla nel rapporto con la natura (anche quella umana) per raccontare i tentativi di fuga dall'isola deserta dove è approdato un giovane uomo. Che ogni qual volta che costruisce una zattera e prova a prendere il largo viene fermato da una testuggine che più che un leviatano è una metafora: enorme e senza tempo, struggente e indispensabile.

Cartoon muto (accompagnato solo dai suoni dell'ambiente e dalla <voce> della musica) e per lo più disegnato a mano da un debuttante di 63 anni (l'olandese Michaël Dudok de Wit, che all'attivo ha già però un cortometraggio da Oscar), <La tartaruga rossa> (premio speciale della giuria a Cannes a <Un certain regard>) trova nel gesto e nel simbolo, oltre che nel linguaggio del corpo, l'ombra di un sentimento reale, l'abbraccio col mondo, nel rispetto del corso, inevitabile, delle cose: lottare, amare, proteggere, invecchiare, morire. Un film animista, spirituale, <nudo>: che va al di là della purezza e autenticità dell'immagine per elevarsi sulla conta dei nostri fallimenti nel mare aperto delle difficoltà apparentemente insormontabili e trovare un senso, un significato, una riconciliazione con sé e col creato (anche quando questo mostra il suo volto più feroce) nell'isola che non c'è dove basta poco per avere tutto.

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Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi

Julieta, tutto su una madre

Tutto su una madre. E' una Penelope che attende invano, ma anche una Calypso abbandonata, l'ultima donna - tra le mille che ha raccontato, con estro e sentimento, nei suoi venti film, amandole tutte - di Pedro Almodovar: una madre che scrive una lettera alla figlia mai dimenticata e nel bianco che scorre tra le righe rovescia rimorsi e sentimenti, domande e sensi di colpa. I pezzi mancanti di un puzzle emotivo che prima o poi dovrà ricomporre.

Odissea esistenziale, tra amore e perdita, di una donna smarrita nella tempesta della separazione e del rimpianto, <Julieta> è uno dei film più sinceramente dolorosi del regista spagnolo, che per girarlo si è ispirato a tre racconti di Alice Munro (<una casalinga che scrive, un po' come me...>, ha detto Pedro), premio Nobel per la letteratura nel 2013.

Nella storia di Julieta (interpretata, per dare il senso del trascorrere del tempo, da due attrici differenti, le entrambe intense Emma Suarez e Adriana Ugarte, che si sostituiscono l'una all'altra in una transizione splendida, risolta con un colpo di asciugamano), Almodovar, abbandonato ormai completamente il gusto per la provocazione che aveva fatto la fortuna dei suoi primi film, accetta la crudeltà della nostalgia. Così come il prezzo della tristezza, della malinconia. Che invade a più riprese - e senza alcun preavviso - la vita della sua protagonista (<tra le tante madri che ho raccontato, certamente la più vulnerabile>), prima costretta a fare i conti con la morte in mare del marito e poi con la partenza di una figlia che, una volta diciottenne, decide di sparire senza darle più notizie. Colori pop (<il nero è una maledizione>), sentimento, trauma, espiazione, mistero (della vita e dell'adolescenza): Pedro è sempre lui, anche se <Julieta>, melò toccante ma volutamente sobrio, manca a tratti di tensione emotiva, di quella fitta che può fare la differenza. In effetti, il cinema del regista di <Parla con lei> e <Tacchi a spillo> si è fatto più senile e – forse - anche più prudente: ma, nel mondo (ideale) in cui le lettere si scrivono ancora a mano, Almodovar conosce (e ci ricorda) l'esatto peso dell'assenza e la misura incalcolabile di affetti e di legami che si possono solo fingere di dimenticare.

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Classifiche, Festival, 2016 Filiberto Molossi Classifiche, Festival, 2016 Filiberto Molossi

Fai bei sogni, Cannes: il nostro pagellone

Grandi film ma anche grosse cadute nella seconda settimana del Festival: ecco i nostri voti ai film in concorso 

Bacalaureat  8

Un medico cerca di aiutare la figlia a passare un esame: un grande dramma morale su un'umanita' corrotta dal compromesso. 

Aquarius 7,5

Unica inquilina del suo palazzo, una grande Sonia Braga si oppone agli speculatori. Tra nostalgia e denuncia: un bel ritratto di signora. 

La fille inconnue 6 -

Un giallo sulla colpa dove l'Europa non ascolta chi bussa alla sua porta: un po' stanchi e monocordi i Dardenne.

Ma' Rosa 6 

Famiglia di pusher e sbirri corrotti:l; anche Mendoza non è ai suoi massimi livelli: partenza un po' lenta, ma cresce.

Juste la fin du mond 7,5

Ha diviso, e i difetti ci sono: ma l'energia e il talento di Dolan restano inpressionanti, così come la sua capacità di dare del tu al cinema.

The last face 4 

Il peggior film di Sean Penn da regista. Tra melo, documentario e war movie: terzomondismo d'accatto. Fischi.

The neon demon 4 

La deriva estetizzante di Refn in un delirio stilosissimo e autocompiaciuto che sfocia nell'horror. Prenditi una vacanza, Nick. 

Elle 7,5 

Uno dei film più coraggiosi della selezione: inizio choc, poi provocazioni e risate. Una commedia nerissima con una Huppert favolosa.

Le client 7,5 

Farhadi apre crepe nel palazzo vuoto della morale: la voglia di vendetta genera mostri. E la commedia della vita finisce in tragedia.

 

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