Queer: Guadagnino, Burroughs e la legge del desiderio
È stato il grande ispiratore della beat generation, l'autore scomodo e inclassificabile del «Pasto nudo» (poi portato sullo schermo da Cronenberg), il prete tossico di «Drugstore cowboy» di Van Sant: e ora rivive, in un film sudato e dai colori saturi, nell'incontro tra Luca Guadagnino e uno dei suoi romanzi più noti, il semiautobiografico «Queer».
C'è la legge del desiderio e il disincanto di chi non riesce davvero a essere amato, nel nuovo film del regista di «Challengers» e «Chiamami col tuo nome» che va sulle tracce di William S. Burroughs, scrittore maledetto come pochi, grande sperimentatore di linguaggi e di droghe, sacerdote allucinato della controcultura, sempre col cappello in testa e il bicchiere in mano. E la pistola nella fondina. Un personaggio enorme di cui Guadagnino rilegge - portando in scena più che il libro il pensiero di cui è figlio-, uno dei testi più controversi (scritto nel '52 ma pubblicato solo nell'85 perché considerato troppo «hot»), tra atmosfere (penso soprattutto a «Il tè nel deserto») riconducibili all'amatissimo Bertolucci («mi manca la sua profondità leggera», ha dichiarato recentemente in un'intervista) e incubi degni di Lynch e Croneneberg.
Diviso in tre capitoli (più un epilogo), «Queer», ambientato nel 1950 a Città del Messico, racconta dell'americano William Lee (riconoscibilissimo alter ego di Burroughs), che si divide tra macchina da scrivere, tequila e oppiacei, passando le giornate tra un bar e l'altro: fino a quando non incontra Eugene, un giovane sfuggente di cui si innamora e con cui parte per un viaggio in Sud America alla ricerca di una droga leggendaria chiamata yagé.
Fotografia calda, musica fuori contesto, cura dei dettagli: ricostruito un intero quartiere di Città del Messico negli studi di Cinecittà, con una concezione volutamente antirealistica, da vecchia Hollywood, Guadagnino regala all'ex 007 Daniel Craig un ruolo inedito, ma fatica ad appassionare e a renderci partecipi della bruciante amarezza del suo protagonista, girando un film colto e sessualmente esplicito dove corpo e mente si fondono sull'altare dell'attrazione. Un progetto ambizioso a cui Guadagnino pensava da sempre: ma se la metamorfosi - e l'estasi - risultano più forti della repressione, «Queer», volutamente irregolare e asimmetrico, alla fine è più cerebrale che struggente, più noioso che scandaloso.
No time to die: l'ultimo giro in giostra di 007
Ci sono due cose che dovete sapere subito sull'ultimo 007: la prima è che si tratta di un film pieno di sorprese, alcune davvero clamorose. La seconda è che non ne scoprirete nessuna leggendo questo articolo: perché Bond appartiene alla cosmogonia del cinema, è sacro. E non si può (e non si deve) spoilerare. Ma di certo va detto che è valsa la pena attendere mille e più rinvii a causa di una pandemia più crudele e arrogante della Spectre: perché l'ultimo giro in giostra di Daniel Craig, per la quinta volta nei panni dell'agente segreto di sua maestà, ha un effetto tellurico capace di rimettere in discussione l'intera saga, di ripensarla da capo. Così come il «Casino royale» del 2006 ha rappresentato il felice e coraggioso restart che ha dato nuova linfa a un personaggio a rischio agonia, «No time to die» chiude il cerchio e cambia in corsa le regole del gioco, non solo portando il nostro amico James a una dimensione più sentimentale, quasi familista, ma riscrivendo, fatti salvi, of course, smoking d'ordinanza e Vodka Martini agitati e non mescolati, i codici narrativi e il destino di un eroe chic che da quasi 60 anni ha la licenza di uccidere e di farci divertire. E allora giù come i pazzi tra i Sassi di Matera, sparando a qualunque cosa si muova nella Cuba post Fidel, oppure fingendo di annoiarsi in un buen retiro targato Giamaica: là dove il «passato non è morto» è sempre più difficile immaginarsi anche un futuro. Ci prova Cary Fukunaga (quello del primo, bellissimo, «True detective»), primo americano a dirigere un film della saga ufficiale (giunta al 25° episodio) che immagina uno 007 in «pensione» e lontano dai guai: peccato siano a loro che lo vengano a cercare. In ballo c'è un'arma di distruzione di massa, un virus subdolo (allegria...) che può condannare l'umanità alla morte o (il contatto è letale...) alla solitudine: per Bond è tempo di rimettersi in gioco. Girl power, depistaggi, fuori strada e altrettanti fuori programma: dopo una prima parte a tutta action, «No time to die» scala un paio di marce e sulle note roche di Billie Eilish coglie fragilità e amarezza di un mondo costretto al ridimensionamento. Riesumata la nostalgia, non c'è addio facile da dare: e se il cattivo stavolta non è particolarmente all'altezza (Rami Malek, il Freddie Mercury del film sui Queen) e il regista patina in maniera sin troppo accentuata le sequenze sentimentali, pazienza. «E' una bella vita, non è vero?». «La migliore».
La truffa dei Logan, l'Ocean's eleven degli sfigati
Nell'America che ha votato Trump, sulle note di John Denver, dove sui pick up girano ancora le musicassette, le bimbe partecipano ai concorsi di bellezza, i pantaloni delle signorine sono corti e le unghie lunghissime, l'imprevedibile Steven Soderbergh si rimangia (per nostra fortuna) l'idea di un sin troppo precipitoso ritiro tornando al cinema con <La truffa dei Logan>, l'<Ocean's eleven> degli sfigati: una sorta di versione operaia, contadina e bifolca - ma non meno (anzi...) divertente - di quel suo successo assai più dandy e luccicante. Una commedia d'azione che celebra i losers, gettando un occhio all'umorismo dei Coen: scritto con grande disinvoltura, col solito congegno narrativo a doppio fondo caro al regista di <Traffic>, bei momenti surreali (esilarante la rivolta in carcere) e un senso felice del paradosso, <La truffa dei Logan> è un heist movie che lavora sul genere, tra criminali da strapazzo, auto veloci e <maledizioni>.
Uno sguardo ironico e per nulla accusatorio a un'America fonda, dove sopravvive senza frizzi e lazzi un'umanità male in arnese: come i fratelli Logan, uno mezzo zoppo, l'altro con un braccio finto perché quello vero lo ha lasciato in Iraq. La jella li perseguita, ma, ormai al verde, progettano il colpo grosso...
Tatuaggi, soldi, stivali, piloti new age, anziane signore che guidano macchine viola coordinate con l'abito: rocambolesco e divertente, il film arruola nella sua armata Brancaleone un cast super cool: da Channing Tatum a Adam Driver, passando per un ossigenato Daniel Craig e per la scoperta Riley Keough, 28enne in ascesa che forse sogna di diventare più famosa del nonno Elvis Presley.
Spectre: ovvero 007 e l'irresistibile tentazione della normalità
«Dicono che sei finito». «E tu che ne pensi?». «Secondo me hai appena cominciato».
Non possiamo non dirci bondiani: e non solo perché a ogni aperitivo invece di un banalissimo spritz abbiamo sempre la tentazione di ordinare un Vodka Martini, «agitato, non mescolato»; oppure perché sono anni che sogniamo di fare capitolare la Bellucci al primo sguardo e salutarla (chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato...) la mattina dopo. Ma perché 007, al secolo Bond James Bond, è un'icona assoluta, un'istituzione british ma ormai globale, un brand forte e conosciuto quanto la Coca Cola: qualcosa di insostituibile e che non passa mai di moda, come i souvenir parigini a forma di Torre Eiffel o gli anolini per Natale. E se alla vigilia delle nozze d'argento con il cinema (siamo al capitolo 24) qualcuno pensa di potere pensionare il mito si sbaglia di grosso: anche se il Bond di Mendes (già, proprio lui: il regista di «American beauty» e «Revolutionary road») è molto umano e ci piace per questo. E all'ossessione adrenalinica di salvare tutto e tutti stavolta contrappone l'irresistibile tentazione della normalità.
Tempus fugit, corri James: fisico, aereo (che spettacolo le sequenze in elicottero), agonistico, «Spectre» fa resuscitare i morti, ma mentre il passato torna, il futuro preoccupa. Gli agenti doppio zero potrebbero infatti avere i giorni contati: il governo pensa non ci sia più bisogno di loro. E intanto, un'organizzazione segreta e maligna, la Spectre appunto (guidata da un Christoph Waltz che altrove è stato anche più cattivo di così), scatena il caos...
Girato in pellicola, con un bellissimo piano sequenza di apertura (che poi è la firma dei buoni veri), il nuovo 007, divertente e felicemente antisalutistico (la bibita vegana? Bevitela tu), seppure non sia all'altezza di «Skyfall» (e l'intreccio assomigli pericolosamente all'ultimo «Mission: impossible»), sa terribilmente il fatto suo ed esalta l'abituale mix di ironia, eleganza (garantisce Tom Ford) e azione con un confronto degno di Caino e Abele. Emerge il privato e nel solito giro del mondo all inclusive (da Città del Messico a Londra, dall'Austria al Marocco) c'è un posto di rilievo anche per Roma: dove Bond-Daniel Craig interroga la Bellucci mentre la spoglia (è 007, vuoi che non sappia fare due cose contemporaneamente?) ed è protagonista di un clamoroso inseguimento tra il Vaticano e il Lungotevere. In una notte in cui nella capitale tutto è possibile: anche trovare, con l'aiuto dell'agente segreto più famoso del mondo, persino un parcheggio.