Dolor y gloria: Pedro, tutto su se stesso
“Il bravo attore non è quello che piange, ma quello che lotta per trattenere le lacrime”. Vale anche per i registi: sicuramente per Pedro Almodovar che nel suo commosso autoritratto, in questo personalissimo e universale film-bilancio, tra rimpianti, ricordi e incontri, di lacrime ne trattiene parecchie. E mentre Mina canta sull’amaca, con “Dolor y gloria” gira un film emozionante, sincero e libero, un’”autofiction”, come la chiamerebbe sua madre, dove non è detto che tutto sia vero e verificabile, ma di certo è reale il sentimento, la tenerezza, il (primo) desiderio.
La malattia, la depressione, la mancanza di ispirazione, l’ombra della morte, le reminiscenze: nella storia di un regista (Banderas, proiezione evidente dello stesso Almodovar) che fa i conti con sè e con il suo passato, ritrovando amici perduti e oggetti che credeva per sempre smarriti, “Dolor y gloria” (uscito ieri al D’Azeglio) è un film sul tempo, sull’amore che “smuove le montagne, ma non basta a salvare le persone che ami”, su rimorsi che rendono più tenui persino gli abituali colori pop (verde e rosso, quelli dominanti) cari al regista. Che qui, circondato dagli interpreti più fidati (non solo il feticcio e alter ego Banderas , migliore attore del Festival di Cannes, ma anche Penelope Cruz, nel ruolo di sua madre da giovane) è più volutamente controllato, gira con grande delicatezza, trova soluzioni (dalle animazioni al monologo teatrale) suggestive. Ma forse, sono solo i nostri occhi “che sono cambiati: il film è sempre lo stesso”.