Tecniche di seduzione: Parthenope, il tempo, la bellezza e il desiderio
C'è l'odore degli amori morti e una città «dove è impossibile essere felici». E una ragazza, «bella e indimenticabile» (come chi la interpreta, Celeste Dalla Porta, esordiente, nipote del fotografo-mito Ugo Mulas, un'assoluta scoperta), che vorrebbe avere sempre la risposta pronta e, come la sua Napoli, non si vergogna di niente. E poi sì, c'è lei, come sempre: la vita. Che è enorme, sconfinata, grande e profonda più del mare; è ovunque, la vita, sai? Ti ci perdi dappertutto.
E' un film sulla bellezza, sul desiderio, «Parthenope»: e sul dolore. E sul tempo, ovviamente. Su tutto quello che resta, su quello che hai perso, su quello che avrebbe potuto essere, ma anche su quello che è stato, che hai visto, che hai (o ti ha) toccato. E anche se comincia nel 1950 e finisce nel 2023, è più di tutto un film sulla giovinezza, quella che forse non hai vissuto ma avresti voluto vivere: non solo età, ma concetto, illusione di eternità, idea, utopica promessa.
Atteso come il film caso dell'autunno, già lungamente applaudito sin dalla prima mondiale a Cannes, va oltre il ritratto (e il mistero) di una giovane donna libera, capace di sopravvivere anche alla sua stessa (grande) bellezza, che potrebbe fare qualunque cosa ma sceglie di essere «semplicemente» se stessa, per fare degli amori (quel «triangolo» iniziale che ricorda un po' i dreamers bertulucciani) e degli incontri della sua protagonista un languido affresco antinarrativo di pura, invincibile, seduzione, dove i ralenti dolci come una carezza, i primi piani-mondo, i movimenti di macchina lenti e calibratissimi, finiscono per creare un incantamento struggente in cui il piacere degli occhi si scioglie nelle note incessanti del «Bolero» di Ravel.
L'armatore Achille Lauro, il colera, la camorra, la protesta studentesca, San Gennaro, Sophia Loren (o meglio una sorta di sua caricatura), il Napoli di Spalletti: in una cavalcata dove la Storia, evocata, resta però sempre sullo sfondo, «Parthenope» si veste (sin dal principio quando di una vecchia carrozza si fa un letto per la prossima nascitura) da racconto magico, inseguendo, tra gli orrori e la meraviglia di una città da cui, prima o dopo, bisogna fuggire, la bellezza spaccacuore di sequenze colme di fascino e di poesia.
Poi qualcuno dirà che il regista di «E' stata la mano di Dio» (di cui questo film è una sorta di immaginario controcampo femminile) si piace troppo e sicuramente non tutto è sempre e ovunque intonato: ma lo straripante talento visionario di Sorrentino, il ritmo del racconto dettato dal montaggio «sentimentale» del reggiano Cristiano Travaglioli (uno dei fedelissimi dell'autore napoletano), l'alchimia tra gli interpreti (oltre a Silvio Orlando, Stefania Sandrelli, Gary Oldman, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Daniele Rienzo e molti altri anche un bravissimo Dario Aita, caro al Teatro Due) esaltano un film che conosce il profondo segreto del piacere degli occhi.
Belfast, è stata la mano di Branagh
«Fai il bravo. E se non puoi fare il bravo, fai attenzione». E' un film affettuoso e struggente, amaro, ironico, tenero e nostalgico, girato ad altezza bambino, con la cinepresa spesso piantata per terra e gli occhi spalancati su una realtà che sa essere magnifica e terribile, «Belfast»: «la mano di Dio» di Branagh che (dopo Sorrentino e poco prima di Spielberg) torna all'infanzia (la sua, irresistibilmente cinematografica e convintamente nordirlandese), per dedicare questo salto all'indietro senza rete, molto bello e molto sentito, a chi è rimasto, a chi se ne è andato e a chi, invece, si è semplicemente perso. Partite a pallone e filo spinato, tabelline e perquisizioni, la ragazzina bionda del primo banco e il coprifuoco: quando in strada scoppiavano le molotov, ma si poteva ancora ballare. E il coperchio di un bidone della spazzatura era lo scudo per affrontare i draghi. Oppure i sassi dei giorni dell'Ira. Dichiarazione d'amore alla città che lo ha visto crescere e che è stato costretto a lasciare troppo presto, «Belfast», candidato a sette Oscar (tra cui quello per il miglior film) e vincitore del Festival di Toronto, è il film più personale e intimo di un regista capace di sbancare i botteghini nei panni di Poirot, passando con disinvoltura estrema (e discreto becco di ferro) da Shakespeare a Thor e Cenerentola, senza però mai tradire (o, peggio, abiurare) la meraviglia del cinema che lo travolse sin da bambino, quando in sala le automobili volavano e in tv davano «Mezzogiorno di fuoco» e «L'uomo che uccise Liberty Valance». Girato nel bianco e nero luminosissimo della memoria (che sostituisce il colore del prologo in un'apertura di grande impatto ed efficacia che già dice tutto), «Belfast» punta la macchina del tempo sull'anno domini 1969, quando, ad agitare l'infanzia felice di Buddy (Jude Hill, deb favoloso) arrivarono i «troubles», il conflitto tra cattolici e protestanti che portò il Paese al caos. Una tragedia nazionale che trasformò la strada dove abitava la famiglia (protestante e pacifica) del regista in un campo di battaglia. Eppure l'amore poté più della violenza, il ricordo, anche nel dramma, sa di zucchero. E sulle note di Van Morrison, Branagh, nella sua rievocazione semiautobiografica, trova primi piani che parlano, un bel taglio e un cast perfetto anche nei caratteristi. Nella consapevolezza di non avere lasciato indietro nessuno: perché qualcuno deve rimanere per forza. «Se no chi proverà nostalgia per chi se ne è andato?».
I dieci migliori film del 2021!
Con un accenno di ritardo (ebbene sì) ma pu sempre in tempo: ecco i dieci migliori film dell’anno appena passato. dal decimo al primo. Con qualche perché. Una sola regola: solo film usciti in sala a Parma nel corso dell’anno scorso. E una domanda: il vostro numero 1 qual è?
10. PETITE MAMAN
Per la sua dolcezza inclassificabile, per la tenerezza ”inaudita”. Perché ho visto film più importanti, ma questo mi ha fatto pensare a una foto di mia madre.
9. IL COLLEZIONISTA DI CARTE
Perché c’è tutto Schrader: la colpa, l’espiazione, la vendetta. E perché usa un sottogenere come quello del poker in modo inedito e «politico». Dimostrando di conoscere le regole del gioco.
8. SCOMPARTIMENTO N. 6
Perché su quel treno diretto alla fine del mondo ci siamo saliti tutti: e per Juho, il regista, che è una persona splendida, che ama quanto me gli anolini e il nocino. Ma forse anche di più.
7. MADRES PARALELAS
Perché sono due film e solo quel matto di Pedro poteva metterli insieme: e perché non c’è Storia, grazie a Dio, che resti muta, che accetti di stare zitta.
6. A CHIARA
Per la festa, che ti sembra di esserci dentro, perché cerca la verità dove la verità è un tabù, per Jonas e Swamy che sono una meraviglia.
5. UN ALTRO GIRO
Perché non è un film sul bere. È un film sui limiti: morali, umani. personali. E perché tra molti film perbenisti o a tesi, ha il coraggio di non esere né l’uno né l’altro.
4. THE FATHER
Perché è una grande riflessione sul complotto della terza età: travestita da dramma da camera. E perché diventare vecchi a volte è un film dell'orrore.
3. DRIVE MY CAR
Perché quella Saab ha portato in giro anche noi, tra Cechov e qualche cicatrice. E perché ci vogliono gli attributi per fare un prologo di 45 minuti.
2. E’ STATA LA MANO DI DIO
Perché la realtà è scadente, ma Sorrentino no. E questo è il suo film più personale e straziato, più intimo e sincero.
1. NOMADLAND
Perché è dedicato ai dimenticati. E agli invisibili, agli emarginati. A chi è nessuno per il mondo e nel mondo, in questo mondo, non si riconosce.
E' stata la mano di Dio. E quella di Sorrentino
Ve lo dico subito, perché non mi va di litigare: se non vi piace Sorrentino è un problema vostro. Non mio. Ma comunque la si pensi sul regista de «L'uomo in più» e de «La grande bellezza», nessuno - credo - potrà negare che «E' stata la mano di Dio», con cui il cineasta napoletano si è aggiudicato il Gran premio della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e che rappresenterà l'Italia nella corsa agli Oscar, sia il suo film più personale e straziato, più intimo e sincero: un appassionante romanzo di formazione «allegro e doloroso» dove Sorrentino trasfigura la realtà per raccontare la storia che gli sta più a cuore, l'unica da cui non può fuggire: la sua. Ritratto del regista da ragazzo, tenero, drammatico, schietto, magico, ispirato, «E' stata la mano di Dio» (prodotto da Netflix) è «I 400 colpi» (e l'«Amarcord») di un autore che fa i conti con sé affondando lo sguardo nei volti su cui ha costruito, anni dopo, il suo immaginario, rintracciando, in quelle storie e in quelle leggende urbane che dicono tanto, tantissimo di lui, le ragioni e le radici del suo cinema, la grande bellezza, in fieri, solo abbozzata, ma in verità già presente, che riempiva gli occhi di un adolescente timido che non si separava mai dal suo walkman. Uno come Fabietto (Filippo Scotti, molto bravo, premiato a Venezia con il «Mastroianni» per il miglior interprete emergente), liceale al Classico, nessun amico e figurati la ragazza: ma una sola, grande, passione, il Napoli di Maradona. E poi il padre bancario, mamma in vena di scherzi, un fratello più grande e una sorella che non esce mai dal bagno: una famiglia felice, dai molti parenti bizzarri, all'ombra del Vesuvio in quegli eccitanti anni '80. Fino a quando una tragedia assurda cambia tutto... La voce di Fellini, l'incontro con Capuano, la videocassetta di «C'era una volta in America», che non si riusciva mai a vedere: e la zia nuda sulla barca, i vicini di casa, un contrabbandiere con cui confidarsi. Sorrentino intinge nella malinconia la poesia del ricordo (a volte solamente immaginario), ma non sfugge al sorriso, gestendo benissimo i continui cambi di tono, dal comico al tragico e viceversa: e tra la solitudine e la perseveranza, gira un film coraggioso e bellissimo in cui mette dentro i sogni, le ferite, le paure, ma anche le risate di un'età che non c'è più, accompagnando il se stesso ragazzino alla scoperta del cinema e del sesso, là dove gli uomini volano, le donne impazziscono e i genitori se ne vanno. E nella rabbia di sentirsi abbandonato, il regista lavora bene sul grottesco, ci spalanca il cuore col suo modo ampio di girare (la sequenza di apertura, ma anche quella Napoli, notturna e no, a cui Sorrentino dichiara devoto il suo amore), mostra senza sconti lo sfaldamento di corpi felliniani, la loro implacabile verità: confessandosi, infine, nell'apparizione di un Maradona icona quanto il Rex, non al prete del liceo ma bensì al pubblico, la sua vera famiglia. E allora mentre esci ti ricordi le parole che hai letto in calce all'inizio: «Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male». Lo ha detto Diego Armando Maradona, santo protettore del regista: che quella stessa frase la potrebbe fare sua e indossare E sì, gli starebbe benissimo.