Priscilla, Maria Antonietta a Graceland
Maria Antonietta a Graceland: un'altra eroina smarrita a corte, regina senza corona in cerca di un re, per Sofia Coppola: che porta sullo schermo «Priscilla», ideale controcampo al femminile del più pirotecnico «Elvis» di Baz Luhrmann. Basato sulla biografia dell'ex signora Presley, che ha anche prodotto il film, «Priscilla» coglie la solitudine di una «first lady» bambina (la 25enne Cailee Spaeny, una scoperta: Coppa Volpi alla Mostra del cinema di venzia per la migliore attrice), adolescente che sposò il suo idolo, primo grande amore della sua vita, a costo però della sua identità e libertà.
La non sempre facile convivenza col mito, i tradimenti, i sonniferi, le pistole: tra maglioncini d'angora e la moquette d'epoca, la Coppola azzecca con regia rock la carta da parati (attenti e cool sia decor che ricostruzione, usati in senso non ornamentale o puramente estetico, ma con precise finalità narrative) e nel mondo di Sofia fa entrare un'altra delle figure femminili, represse ma non sconfitte, che l'hanno resa famosa, accarezzando la devozione e la trasformazione di una donna-bambina che scelse di essere la moglie del «re».
Vero è che il film, seppure ben centrato, fatto su misura, resta un po' piatto, a tratti un po' moncorde: ma l'autrice, che non ha certo paura di calarsi nel cuore oscuro della celebrità, in quel passaggio della protagonista da ragazzina a bambola e infine (nel momento in cui reclama la sua libertà) a donna coglie un'urgenza universale e assolutamente contemporanea.
Elvis: il re è vivo, viva il re
Il re è vivo: viva il re. E' una Cadillac rosa col motore di una Ferrari, «Elvis»: più che un biopic un film-manifesto, la versione di Baz: un rutilante, visionario, immaginifico e strabordante big show sulla «rivoluzione Presley», su Elvis come dio del rock, leggenda, quello che volete o vi pare: ma soprattutto in quanto fenomeno capace di influenzare, in modo improvviso ma definitivo, la cultura di massa. Elvis, il ragazzo e il simbolo: che sul palco, limitandosi a essere semplicemente se stesso, imprime una svolta decisiva alla morale, al cambiamento dei costumi, alla libertà sessuale (il suo modo di muoversi, che fece scandalo...), persino (lui cresciuto tra i neri e con la loro musica) all'integrazione razziale. Accolto al Festival di Cannes da una standing ovation di 12 minuti il film di Luhrmann, che è piaciuto di più ai critici europei che a quelli statunitensi (trattasi, specie da quelle parti, comunque di «divinità» e il rischio blasfemia è sempre presente...) punta a fare della storia di Elvis, breve (morì, sfatto e distrutto, ad appena 42 anni) e eterna, un grande racconto americano. Dove più che la verità o la finzione, il racconto o l'interpretazione, conta - e esce potente dallo schermo - il cinema: forte di un montaggio insostenibile e spavaldo (le inquadrature sono brevissime, non durano più di 4-5 secondi l'una), il film (puntellato di una colonna sonora di guest star, tra cui i nostri Maneskin) assomiglia a Elvis nella sua sovrabbondanza, nel suo darsi, in maniera spericolata e generosa, al pubblico, alla gente. E allora ecco che Luhrmann, non proprio un alfiere della sottrazione, usa senza risparmio tutto quello che ha in dote: split screen, graphic novel, ralenti, fermo immagine, materiale d'epoca, scritte, sovrapposizioni. Ne esce un film visionario e potente, con una prima parte bellissima, frutto di un'energia incandescente e una seconda, invece, quella declinante, più ripiegata su stessa, ma non per questo (i momenti musicali sono straordinari, trascinanti o struggenti a seconda del momento) meno incisiva. Il regista di «Moulin rouge» ha poi un'idea vincente e funzionale nel consegnare la parte dell'io narrante all'antagonista, il colonnello Parker (che non era né colonnello né tanto meno si chiamava Parker...), il manager padre-padrone di Elvis. Un dualismo, quello tra Presley e il colonnello, su cui si regge la parte più puramente narrativa (e meno di palco e di pancia) del film: un rapporto sublimato padre/figlio (o vittima/carnefice) che mette, uno di fronte all'altro, una grande star nel ruolo del «cattivo», Tom Hanks, e un quasi sconosciuto - Austin Butler, autore di una performance (anche dal punto di vista fisico) clamorosa - in quello del protagonista.
Le 7 ragioni perché non si può perdere Blade Runner 2049
1) Perché è il sequel di un film di un culto, che ha segnato un'intera generazione. E, in molti casi, anche quelle successive. Perché abbiamo aspettato 35 anni: e non l'abbiamo fatto invano.
2) Perché è ambientato nel 2049, ma parla di noi e dell'oggi: dello scontro tra generi e razze, dell'anima, della ricerca di sè, dell'umanità (persa o ritrovata). Di un mondo virtuale sempre più reale.
3) Perché lo ha girato un grande regista, Denis Villeneuve, che non è il primo che passava per strada: ma l'autore di un film enorme come <La donna che canta> e di altri film bellissimi come <Arrival>, <Sicario>, <Prisoners>.
4) Perché c'è Harrison Ford, invecchiato ma mai domo, nel ruolo che ha amato più di tutti: e tiene testa a una delle grandi star di adesso, Ryan Gosling, fisico da photoshop, che fino all'altro giorno ballava in <La La Land>.
5) Perché c'è anche Ana de Armas, bellissima 29enne cubana, la vera sorpresa del film: una che quando hanno girato il primo <Blade runner> non era ancora nata. Ma di cui adesso potresti innamorarti anche se è solo un ologramma.
6) Perché ci sono Elvis, Sinatra e la neve, a Los Angeles. Perché c'è la nostalgia di qualcosa che non si è vissuto. E perché noi ricordiamo con i sentimenti.
7) Perché non abbiamo mai davvero smesso di chiederci cosa sono quelle cose che noi umani non potremmo nemmeno immaginare.
Nato non creato, furioso come il tuono: è ancora tempo di Blade Runner
E' un occhio che si apre a un mondo che (non) c'è: un mondo orfano alla ricerca di un padre, di un'anima o almeno - ora come allora -, di un senso. E' un fiore nella nebbia, un dubbio improvviso e imprevisto nel mare morto della certezza: l'interferenza che agita un'immagine che arriva da lontano. Furioso come il tuono, nato non creato, <Blade Runner 2049>: aggrappato alla vita e alla forza dei ricordi, nella scoperta – filosofica prima che cinematografica (chi sono io? Non è forse questa la grande domanda?) - di sé. Nel mistero di una nascita che si porta addosso (come ogni nascita) lo sgomento, la paura: quella di perdere qualcosa che ancora non sai cos'è.
Atteso con terrore dai molti che ritenevano blasfemo il solo immaginare un sequel del cult movie di Ridley Scott, il nuovo <Blade Runner> diretto dal cinquantenne Denis Villeneuve (è il grande regista di <Arrival>, ma anche di <Sicario> e de <La donna che canta>) è invece un film ipnotico e affascinante, visionario e messianico, in cui ritrovare, oltre allo stesso mood dell'originale, frammenti e bagliori dell'oggi, dallo scontro tra generi e razze, a quello tra padroni e schiavi, là dove gli angeli di un dio cieco sognano ancora di assaltare l'Eden.
Trent'anni dopo le vicende del primo film (anche se in realtà da quello ne sono passati 35), nella Los Angeles del 2049 c'è ancora chi dà la caccia ai replicanti, androidi prodotti dalla più sofisticata ingegneria genetica: come l'agente K (ogni riferimento a Kafka non è puramente casuale) che, sotto la pioggia perenne di una città morente, prova a risolvere un caso che potrebbe avere conseguenze devastanti. Per farlo avrà però bisogno di ritrovare Deckard, l'ex poliziotto protagonista della pellicola dell'82...
Potente nella ricerca, ossessiva, di barlumi di umanità (quella che abbiamo perso), meraviglioso agli occhi (con quell'uso sinfonico, <musicale>, della fotografia, con i colori neon, gli ocra e i rossi saturi ispirati a una tempesta di sabbia, frutto del lavoro <monstre> del grande Roger Deakins), il film di Villeneuve (forte di un super cast dove non brillano solo Ryan Gosling e Harrison Ford) sparge ovunque rimandi continui al <Blade Runner> originale, ma senza copiarlo, piuttosto trasformandosi in un riflesso (perduto chissà dove nel tempo) di quello, in un'immagine, come nella bellissima sequenza d'amore, che si sovrappone a un'altra. Non replicato, ma replicante. E se nella solitudine del cyborg che spia le vite degli altri il regista franco-canadese coglie lo smarrimento delle nostre vite surrogate, i riferimenti alle inquietudini contemporanee (la spersonalizzazione dell'io, il sempre maggiore ricorso all'automazione, il virtuale-reale, lo sguardo verso il <diverso>, il caos climatico, le domande della bioetica, l'identità) sono molteplici: il resto è nostalgia (Elvis, Sinatra...) per qualcosa che non si è vissuto. E lacrime, ovviamente. Ma questa volta non nella pioggia: ma nella neve.