Mio padre e quel bambino che giocava nel suo uffiico
Questo articolo l’ho scritto tre anni fa: oggi, festa del papà, mi sembra giusto riproporlo qui
La prima volta che sono entrato alla Gazzetta ricordo solo sorrisi, un clima molto disteso. C'era persino un bambino che giocava per terra nell'ufficio del direttore. Quel bambino ero io. Dicono: «Scrivi quello che vuoi». Che poi, grazie al cielo, è quello che ho sempre fatto. Anche se questa volta è un po' più complicato: perché questo giornale per me non potrà mai essere solo un posto di lavoro, il luogo (e le pagine) dove ho trascorso la maggior parte della mia vita. Ma anche, anzi soprattutto, un intreccio di affetti, ideali, sentimenti: un affare di famiglia, un articolo da battere su tasti color nostalgia, un ponte tra l'edizione del giorno prima e quella del giorno dopo. Mio padre, il direttore, mi portava per mano anche al cimitero: lui, laico, visitava e rendeva grazie ad avi che - tanto quanto me - non aveva mai conosciuto. Suo padre morì quando lui stava per nascere, suo nonno se ne era andato già tempo prima. Eppure entrambi, senza mai conoscerlo, fecero in tempo a contagiarlo: ad attaccargli quella fortunatamente inguaribile malattia che è la passione per la carta stampata, «l'arte scontrosa», i fatti, le notizie, la vita - sì, la vita - mentre succede. Mi perdonerete, ma è una famiglia strana la mia: il bisnonno, Pellegrino, che la Gazzetta addirittura se la comprò, pur di rimanerne alla guida rifiutò la direzione di un «piccolo» e onesto giornale della nebbiosa Lombardia: il Corriere della sera. Era quello che avreste definito, in quell'agitato Ottocento, un uomo tutto di un pezzo. Non erano tempi, quelli, di richieste di rettifiche o cause in tribunale: le controversie legate al giornale si risolvevano all'alba, a suon di duelli. Per fortuna, Pellegrino oltre che di penna affilatissima era dotato di ottima mira: non perse mai. E diede alla sua famiglia e al suo giornale, un carattere, un timbro. Come quella volta che i carabinieri, una disgraziata sera agli inizi del secolo breve, durante una sparatoria, uccisero per errore suo fratello Filiberto, di cui porto il nome. La vicenda fece clamore e venne da più parti strumentalizzata, usata per biechi fini politici. In un editoriale che non temo a definire leggendario, Pellegrino, pur straziato dal dolore per la morte assurda di suo fratello, difese i carabinieri che lo avevano ucciso. Ecco, se mi chiedete chi siamo, noi non siamo nient'altro che questo: siamo quella cosa lì. Il giro al cimitero finiva sempre nel campo dove riposavano gli ebrei. Non c'era un parente da salutare, ma la tomba di Alessandro Bassani: l'uomo che il primo maggio (data curiosa per un'assunzione) volle mio padre alla Gazzetta di Parma. Con regolare lettera gli riconosceva tre mesi di prova: lui si fermò, facendo la fortuna di questo quotidiano, per 42 anni, 35 dei quali (un record) vissuti da direttore. Alla Villetta, un saluto per Bassani non mancava mai: per mio padre, l'uomo che salutava i tipografi togliendosi il cappello, la riconoscenza aveva un valore. Alla Gazzetta negli ultimi 150 anni hanno lavorato, dirigendola e portandola a grandi successi, mio bisnonno, mio nonno, mio padre e mio fratello: un discreto fardello. A 18 anni non volevo fare il giornalista nemmeno morto: adesso (e non da ora) non vorrei fare nient'altro al mondo. La malattia, alla fine, ha contagiato anche me. Mio padre lo sapeva da sempre, forse già da quel giorno che mi portò a giocare nel suo ufficio. Anche il destino remava in quella direzione: sono finito in un editoriale ancora prima di scriverne uno. Quando sono nato, infatti, mio padre mi ha dedicato uno dei suoi articoli più belli: «Lettera al figlio». Non ho pianto la sera che è morto: ho pianto il mattino dopo, da solo, rileggendo quel pezzo. Che indica una strada, e una direzione: «Sii fermo e caparbio nella tua fede, ma anche benevolo e tollerante verso le convinzioni altrui; sii benigno agli umili e fiero con i potenti; ripudia la violenza come mezzo per risolvere le controversie e credi nella forza mitica e irresistibile della ragione». So che adesso, lui che dal barbiere mi veniva a prendere con la scorta quando a casa nostra telefonavano le Brigate Rosse e a volte faceva tardissimo per amore di quella «vecchia Gazza saltellante», mi rimprovererebbe a sapermi alzato sino alle 3 di notte per finire la recensione di un film o magari un «fondo»: ma sarebbe anche l'unico a capirmi. A capire che la Gazzetta si fa così o non si fa per niente: prendendosela a cuore.