2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi

The French Dispatch: il film pop-up di un regista che libera la testa

Ci sono molti aggettivi, molte parole, moltissime (morbide, colorate, lievi), per descrivere il cinema raffinato e irresistibile di Wes Anderson. Ma forse ce n'è una che le racchiude tutte: delizioso. Fiabescamente vintage, surreale, dolcemente ironico: ma più di tutto delizioso. Non sfugge alla regola nemmeno «The French Dispatch», un film che si sfoglia come una rivista, l'ultimo lavoro del regista texano sette volte candidato all'Oscar (che però - ma siete matti? - non ha mai vinto): girato con il tocco del grande illustratore, forte di un'immaginazione sempre fertilissima, è una lettera d'amore al giornalismo, capace di passare con disinvoltura estrema dal colore al bianco e nero, dai 4/3 allo schermo pieno. Divisa in vari capitoli (come le sezioni di un giornale), la pellicola, godibilissimo divertissment dai colori pastello (quel giallo senape, gli azzurri, i verdi, i rossi: chapeau), racconta di una redazione americana con base nella Francia del XX secolo la cui chiusura ormai sembra imminente... Ma nell'ufficio del caporedattore (Bill Murray, l'attore feticcio di Anderson) fa bella mostra di sè una scritta che non lascia adito a dubbi: «Non piangere». Arte moderna, il Maggio del '68, la venerazione per gli chef (qui ce n'è uno che si chiama Nescaffier...): l'autore fuori dagli schemi di «Moonrise kingdom» e «The Grand Budapest Hotel» guarda stilisticamente al suo adorato New Yorker, facendosi gioco degli stereotipi per proporre col sorriso sulle labbra i suoi elaboratissimi quadri vivant, non disdegnando nemmeno l'utilizzo del fumetto. Vera e propria gioia per gli occhi, sospesa tra la fantasiosa rivisitazione d'epoca e il gusto ingegnoso per l'inquadratura (sovraffollata di oggetti, di particolari, di persone), «The French Dispatch» è un caleidoscopico film sul mondo che (purtroppo) cambia, la nostalgia di qualcosa che non è mai esistito, pieno di idee (il detenuto che dipinge la bella guardia carceraria, la partita a scacchi a distanza tra il leader del movimento studentesco e il governo...) e ricchissimo di star (l'elenco degli amici di Wes è davvero infinito: da Benicio Del Toro a Owen Wilson, da Frances McDormand a Timothée Chalamet, da Léa Seidoux a Christoph Waltz....): si apre come un libro pop-up, libera la testa e porta beneficio anche agli sguardi affaticati.

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Nomadland, l'eterno viaggio degli invisibili


«Ci vediamo sulla strada».

Dedicato ai dimenticati. E agli invisibili, agli emarginati. A chi è nessuno per il mondo e nel mondo, in questo mondo, non si riconosce. Su e giù per le badlands, lungo le strade di un’America desolata, in cerca di qualcosa di bello, ovunque esso sia. Tra enormi dinosauri di gomma e piatti del servizio buono che non ci fai più nulla: avanti e indietro, già smarriti in un part time dietro l’altro, con pensioni ridicole dopo avere sgobbato una vita, per non sentirsi solo un pacco difettoso di Amazon sotto Natale. Eppure andare: come se non fosse rimasto altro da fare. In fuga, perenne (ma non sempre obbligata), dalle logiche del capitalismo e del consumismo, per ritrovarsi - in qualche lontano altrove - comunità, gruppo, tribù. Prima di ripartire, nuovamente soli. E’ un’umanità sradicata, privata a forza del sogno americano (ormai ridotto a riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena), piena di fantasmi e sopravvissuti, quella che viaggia sullo schermo in «Nomadland», il film dei tre Oscar (miglior film, regista e attrice protagonista: tutti strameritati), già Leone d'oro all'ultima Mostra di Venezia: un «Furore», ruvido e elegiaco, del terzo millennio che puzza di benzina e sa di abbandono, là dove il viaggio è prima necessità e poi destino, stato d’animo, identità. Vittima della grande crisi economica, dopo il crac di una città-azienda nel Nevada e la morte del marito, l'ex prof Fern (Frances McDormand, strepitosa) carica i bagagli sul suo furgone e - come tanti altri nomadi moderni - lo trasforma nella sua casa... Springsteeniano, autentico, sentito, «Nomadland» della cinese d'America Chloé Zhao è un film toccante e struggente che va alla costante ricerca di ciò che sta oltre l’orizzonte, sublimando, nel mescolare attori professionisti a veri «nomadi» on the road, l’incontro simbiotico tra realtà e finzione, in una continua, ed emozionante, invenzione del vero. Sulle strade dell'America altra, dove gli houseless privi di frontiere (nuove o vecchie che siano), messi da parte eppure liberi, vagano alla ricerca di scampoli di solidarietà: per trasformare una scelta obbligata in una scelta di vita.

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Rabbia, lacrime e risate: Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Ci sono film che te ne accorgi subito, li riconosci al primo istante: e li ami da allora, d'istinto, di pelle. Come se quello che ci fosse stato prima o dopo contasse poco, oppure niente: perché importano solo quelle due ore lì, che vane non sono. E nemmeno perse. Succede anche con <Tre manifesti a Ebbing, Missouri>, cazzuto già dal titolo (che non ammicca né cerca favori), un colpo di fulmine sin dal trailer, ben prima dei 4 Golden Globes vinti l'altro giorno, tra cui quello per il miglior film drammatico dell'anno.

Nell'America profonda dove <rabbia genera rabbia>, la provincia violenta e razzista che semina odio e raccoglie rancore, un apologo struggente e politicamente scorretto dove il western moderno incontra il cinema civile, un dramma furente e iracondo squarciato da improvvisi (e spesso irresistibili) lampi di umorismo nerissimo.

La figlia adolescente di Mildred, madre coraggio spaccata in due dalla vita, ferita e ostinata, è stata stuprata e poi uccisa: ma dell'assassino dopo mesi ancora nessuna traccia. Per dare la sveglia alla polizia locale, allora, la donna decide di affittare tre grandi cartelloni pubblicitari stradali facendo sapere a caratteri cubitali alla città e allo sceriffo (e al suo vice odioso e violento) che la sua pazienza è finita...

Indignazione e riscatto, facce sfatte e senso di colpa, orgoglio e perdono: diretto dal Martin McDonagh di <In Bruges>, che ne ha firmato anche lo sfaccettato e brillantissimo copione, <Tre manifesti> va al di là della solita epica dell'<una contro tutti> per esaltare con personalità una scrittura a contrasto dove l'ironia, per quanto amara, pugnala alla schiena un contesto ovviamente serissimo.

McDonagh lavora molto bene sull'evoluzione dei personaggi (anche di contorno: il poliziotto mammone, il nano corteggiatore, lo sceriffo che sa di essere all'ultimo round), coglie l'enormità del loro strazio, ma senza celarne (né cicatrizzarne) le imperfezioni, ne studia e ricama le sfumature: girando così un film arrabbiato e springsteeniano che a colpi di battute fulminanti sbriciola il muro delle convinzioni più ovvie.

Salutato alla Mostra di Venezia dello scorso settembre (dove vinse il premio per la miglior sceneggiatura) da applausi a scena aperta, <Tre manifesti a Ebbing, Missouri>, tra i grandi favoriti all'Oscar, è uno dei film che non si possono perdere quest'anno. Per molte ragioni: una ha anche un nome e un cognome. Frances McDormand, enorme nel ruolo della protagonista in un film dove anche i sassi sembrano avere preso lezioni di recitazione.

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