2018, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2018, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Mr. Long, una lama nel cuore: il killer e l'alfabeto silenzioso del cibo

Non so se Sabu sia un fan di David Mamet, ma di sicuro conosce bene una delle teorie più famose del commediografo americano: quella sugli usi del coltello. Che è fatto - specie nell'iconografia cinematografica - per uccidere, ovvio: ma anche per accarezzare, con lama gentile, cipolle destinate a insaporire una zuppa che scalda il cuore. C'è il cibo come guarigione e riscatto in <Mr. Long>, ponte tra culture capace di superare barriere non solo linguistiche, alfabeto silenzioso in cui riconoscere un idioma (sentimentale) comune, condiviso: motore di una storia che, svuotate le parole, incide col pugnale ritagli di (im)possibile felicità, nel solidale sedersi alla stessa tavola dove, come nella canzone di De Andrè, si spezza il pane anche per l'assassino. E' un bel film questo del 53enne regista giapponese, che cucina un soggetto originale con ingredienti non inediti, offrendo un contributo personale ai codici del crime all'orientale nel seguire, dopo un prologo acido e notturno, la parabola di un killer taiwanese in trasferta in Giappone: gravemente ferito, in fuga in una baraccopoli, l'uomo viene aiutato da un bimbo, figlio di una tossicodipendente, e dai vicini (una sorta di coro comico nella tragedia) che non sanno nulla di lui ma vengono conquistati dal suo talento ai fornelli...

Ci sono echi di <Ghost dog>, di <History of violence>, del miglior Kitano: ma, soprattutto, movimenti calibrati che sanno diventare repentini e coreografici nel momento delle esecuzioni, la capacità di uscire da confini già segnati (bello e inatteso il flashback centrale, che sposta improvvisamente l'attenzione sul personaggio femminile), l'amarezza di un <eroe> che si tiene tutto dentro. E' una coincidenza, certo, ma non un caso se i due migliori film in sala in questo momento (l'altro è <Un affare di famiglia>) provengono dal Giappone: è radiosa l'alba del Sol Levante.

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The sound of Silence: l'ultima tentazione di Scorsese

<E' stato nel silenzio che ho sentito la Tua voce>.

Mistero della fede: alla fine del mondo dove Cristo muore <per il miserabile e il corrotto> e solo il perdono ha ancora un senso, l'ultima tentazione del prete perduto: tradire se stesso per salvare gli altri. E' fatto di nebbia, fumo e martirio, il kolossal intimo, mistico e spirituale dell'ex seminarista Martin Scorsese che con <Silence> (un progetto che coltivava da ben 26 anni) gira un film che nell'ombra cerca, ostinatamente, la luce. Interrogandosi sul peso terribile del silenzio di Dio, apparentemente sordo alle nostre grida sull'ingrata madre terra dove il debole non ha posto e insegue una promessa di salvezza misurandosi con la tortura del dubbio.

Atto conclusivo della trilogia sulla fede (quella iniziata con <L'ultima tentazione di Cristo> e proseguita con <Kundun>), il film con cui il regista di <Taxi driver> e <Toro scatenato> festeggia mezzo secolo di cinema cerca risposte che nessuno può dare, tra sacrifici massimi e scelte umane troppo umane, immolandosi all'inimmaginabile sofferenza dell'imperscrutabile.

Anno domini 1633: due giovani gesuiti portoghesi (interpretati dallo Spider Man Andrew Garfield e da Adam Driver, sugli schermi anche con <Paterson>) partono, per cercare il loro mentore, alla volta del Giappone, dove il cristianesimo è messo al bando e i suoi seguaci uccisi in modo atroce se non rinnegano Dio...

Profondo, tormentato, sussurrato, affamato di verità (là dove non ci si può permettere alcuna certezza), <Silence> è il film in un certo senso apostata di un grande regista che, accantonato lo stile eccitato e caleidoscopio di <The wolf of Wall Street>, sposa un rigore solenne e riflessivo per cogliere - prima usando benissimo i grandi spazi, poi rinchiudendosi nella cella dell'anima – la profondità di una fede che è insieme condanna e liberazione, prevaricazione (nel modo in cui tenta di imporsi senza rispetto della cultura altrui) e supplizio (le persecuzioni di ieri che assomigliano a quelle di oggi), egoismo ed esempio, chiave per perdersi e ritrovarsi. E se è vero che lo Scorsese religioso non è quello che preferiamo, è indubbio che <Silence> (a cui il doppiaggio non rende giustizia) gronda di passione, crudeltà, potenza. Tortuoso e ambiguo e mai netto, mai facile: come la strada che porta alla croce. Non solo quella che ognuno ha in spalla: ma anche l'altra, simbolo di appartenenza e consolazione, che mani grandi e non più tremanti stringono fino a farne rifugio, riparo, scrigno, santuario.

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