2024, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2024, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Megalopolis, l'ultimo, folle, sogno di Francis Ford Coppola

Intendiamoci: io a uno che ha fatto «Il padrino», «Apocalypse Now» e «Rusty il selvaggio» non la getto la croce addosso. Ma davvero il progetto di smisurata e ingombrante ambizione che il padrino (e patriarca) del cinema Francis Ford Coppola ha inseguito per oltre 40 anni, il «kolossal della vita» di un autore che in questo sogno (ben più lungo di un giorno) non ha messo solo la faccia ma pure i soldi (120 milioni di dollari del suo patrimonio personale...) ti chiama a cimento: perché oltre che folle, l'ultimo film del cineasta italoamericano è un apologo politico caotico e megalomane, volutamente (ma eccessivamente) kitsch, in cui Coppola - mischiando con audacia temeraria le Catilinarie con l’assalto a Capitol Hill, la decadenza dell’antica Roma con le proteste e il malcontento odierno - canta il declino dell’impero americano, ma rischia di mostrare soprattutto il suo.

Così mentre New York diventa New Rome (ma più che altro sembra Gotham City) e il Madison Square Garden si trasforma nel nuovo Colosseo, l’idea rivoluzionaria di Catilina, un uomo capace addirittura di fermare il tempo, di realizzare una metropoli inclusiva e sostenibile è ferocemente osteggiata dal sindaco Cicerone, la cui figlia però decide di schierarsi con l’avversario del padre...

Ultimo dei visionari e degli utopisti, Coppola, a 85 anni, dimostra di credere ancora con sorprendente, commovente, ottimismo che un altro mondo (e un altro cinema) è possibile. Ma il parallelismo tra la città eterna e la New York del futuro prossimo venturo risulta per lo più strampalato, il de profundis per una società chiamata a un cambiamento radicale se non vuole estinguersi si sposa raramente in modo efficace con il ricorso a una cifra grottesca poco consona all’autore e la forza dell’appello, infine, risulta frenato dalla retorica che inficia le promesse di un mondo nuovissimo. Insomma, il pasticcio è dietro l’angolo e la materia filmica (e liquida) di Coppola deborda come in un sogno (e a volte un incubo...) che fa di «Megalopolis» una fiaba fantasmagorica e a tratti trash di cui il regista, per quanto dimostri coraggio e vitalità, fatica a mantenere il controllo.

Il cast all star si adegua, ma non è facile stare dietro al desiderio, di uno dei più grandi registi viventi di cambiare le regole del gioco. Che sa anche essere crudele.

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Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi

Megalopolis, l'ultimo sogno di Coppola

Intendiamoci: io a uno che ha fatto «Il padrino», «Apocalypse Now» e «Rusty il selvaggio» non la getto la croce addosso. Ma davvero il progetto di smisurata e ingombrante ambizione che il padrino (e patriarca) del cinema Francis Ford Coppola ha inseguito per oltre 40 anni, il «kolossal della vita» di un autore che in questo sogno (ben più lungo di un giorno) non ha messo solo la faccia ma pure i soldi (120 milioni di dollari del suo patrimonio personale...) ti chiama a cimento: perché oltre che folle, l'ultimo film del cineasta italoamericano è un apologo politico caotico e megalomane, volutamente (ma eccessivamente) kitsch, in cui Coppola - mischiando con audacia temeraria le Catilinarie con l’assalto a Capitol Hill, la decadenza dell’antica Roma con le proteste e il malcontento odierno - canta il declino dell’impero americano, ma rischia di mostrare soprattutto il suo.

Così mentre New York diventa New Rome (ma più che altro sembra Gotham City) e il Madison Square Garden si trasforma nel nuovo Colosseo, l’idea rivoluzionaria di Catilina, un uomo capace addirittura di fermare il tempo, di realizzare una metropoli inclusiva e sostenibile è ferocemente osteggiata dal sindaco Cicerone, la cui figlia però decide di schierarsi con l’avversario del padre...

Ultimo dei visionari e degli utopisti, Coppola, a 85 anni, dimostra di credere ancora con sorprendente, commovente, ottimismo che un altro mondo (e un altro cinema) è possibile. Ma il parallelismo tra la città eterna e la New York del futuro prossimo venturo risulta per lo più strampalato, il de profundis per una società chiamata a un cambiamento radicale se non vuole estinguersi si sposa raramente in modo efficace con il ricorso a una cifra grottesca poco consona all’autore e la forza dell’appello, infine, risulta frenato dalla retorica che inficia le promesse di un mondo nuovissimo. Insomma, il pasticcio è dietro l’angolo e la materia filmica (e liquida) di Coppola deborda come in un sogno (e a volte un incubo...) che fa di «Megalopolis» una fiaba fantasmagorica e a tratti trash di cui il regista, per quanto dimostri coraggio e vitalità, fatica a mantenere il controllo.

Il cast all star si adegua, ma non è facile stare dietro al desiderio, di uno dei più grandi registi viventi di cambiare le regole del gioco. Che sa anche essere crudele.

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Recensione, 2021 Filiberto Molossi Recensione, 2021 Filiberto Molossi

House of Gucci, tra melò e soap: l'epopea di una royal family della moda

C’è in Ridley Scott una spavalderia trash, forse anche dettata dall’età (e dal prestigio di chi deve rendere conto al massimo al padreterno), che non so ancora, nemmeno dopo quasi tre ore di film, se più mi attira o mi respinge. Perché ci vuole un bel pelo per mettere insieme «La ragazza del maglione» di Pino Donaggio e «Faith» di George Michael, Pavarotti e Bruno Lauzi, la tragedia shakespeariana e la soap che nemmeno Dinasty, il glam degli inarrivabili negozi di lusso e le chiromanti chip da «Ok, il prezzo è giusto», il melò alla «Padrino» e gli avanzi del giorno prima. Pacchiano e incontinente, ma anche efficace e sfacciato, «House of Gucci» che tende all'opera ma strizza l'occhiolino all'operetta, evoca Lady Macbeth ma la fa ballare coi sosia del Bagaglino: una fiaba prima lovely e poi dark spericolata e sopra le righe dove la cronaca nera (e vera) diventa - con un'interpretazione a tratti funzionale a questa storia di amori, amorazzi, affari più o meno puliti, passerelle e passacarte, vendetta e morte - telenovela. Preceduto da polemiche a non finire, foto ricordo di influencer e gossip creati più o meno ad arte, il nuovo film dell'autore di «Blade runner» (sempre sia lodato) cavalca senza sella l'epopea di una royal family della moda, concentrandosi soprattutto sulla nascita (esaltante) e la fine (tragica) di una coppia. Quella formata da Maurizio Gucci, erede riluttante di un marchio che adesso vale quasi dieci miliardi all'anno (dati pre pandemia) fondato un secolo fa a Firenze, e da Patrizia Reggiani, esuberante e seducente figlia di un imprenditore dei trasporti. Osteggiata dalla famiglia di lui, l'unione però sembra invincibile: e l'intraprendenza di Patrizia permette a Maurizio («ha difficoltà con il parchimetro, come farà a dirigere Gucci?», si chiede lei) di scalare, tra uno sgambetto e l'altro, le gerarchie: fino a che... Macchiettistico, discontinuo, pasticciato, «House of Gucci» ha però il merito di cogliere l'edonismo, l'avidità, la voglia di emergere di anni che credevamo di esserci lasciati per sempre alle spalle. Scott esagera col cerone (tutti quei divi troppo acciaccati - da Al Pacino a Jeremy Irons - o completamente fuori parte, come Jared Leto), cuoce a fuoco lento la ribollita (che è buona ma non sempre facile da digerire), spara Verdi e «La Traviata» in una scena hot degna del «Postino suona sempre due volte»: e finisce per confezionare un film che è molto dentro o fuori, prendere o lasciare. Ma che ha dalla sua una fantastica Lady Gaga, che impersona con notevole spontaneità (e grinta da star) Patrizia Reggiani in Gucci, vera protagonista di un feuilleton di cui la cantante cinematograficamente lanciata da «A star is born» è l'indiscussa e ambiziosissima regina.

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