Ad Astra: la solitudine di Brad Pitt tra le stelle
<Per aspera ad astra>
E sì, il percorso è disseminato di difficoltà, impervio è il cammino che porta lassù, dove <lucean le stelle>. Lo sapevano gli antichi: lo sa anche James Gray, gran cantore minimalista della quotidianità, che stavolta mira (molto) in alto partendo dal futuro per arrivare a quello che in realtà gli sta più a cuore: l'oggi, l'uomo, il <noi adesso>, dove assenza è ancora e sempre più acuta presenza.
Cerca un padre, ma ne ha moltissimi <Ad Astra>, il fanta film edipico e suggestivo che Gray ha portato di recente all'ultima Mostra del cinema di Venezia: ricorda <Apocalypse now> in quella sua ricerca nel profondo, ha tanto di <Interstellar> con cui condivide anche il direttore della fotografia), ma anche reminiscenze di <2001> (quel misterioso accarezzare la faccia filosofica del genere) e persino di <Strategia del ragno> (anche se nessun altro ve lo dirà); disseminato di richiami alti (alla cui altezza non sempre riesce a stare), si interroga sull'io, là dove il grande enigma più che <dove andiamo> è <chi siamo>.
Il governo ordina a un astronauta (Brad Pitt: ottimo il suo antidivistico lavoro di sottrazione) di partire al più presto per una missione segreta: deve ritrovare nello spazio il padre eroe che tutti credevano morto. E che ora, forse, sta minacciando la Terra...
Acclamato dalla critica Usa, <Ad Astra> è un film intimista ambientato paradossalmente nello spazio più infinito (la terra di nessuno della nostra coscienza), un dramma introspettivo che paga il confronto con <Gravity> (anche in termini, imprevedibilmente, di credibilità), ma che ha dentro sin dall’inizio un senso d’addio, una solitudine siderale e contemporanea, che è qualcosa che ci appartiene. E che, soprattutto, ci riguarda.
Dunkirk, la Storia siamo noi
E' girato interamente in pellicola (sì, quella che nessuno usa più), in 65 millimetri, nel formato Imax (alla massima risoluzione) con 1.500 comparse e oltre 60 navi vere, in spazio aperto, dove anche la Storia, per quanto sia di per sé già enorme, monumentale, diventa subito epopea, epica, esempio. E' pensato in grande, eppure (per contrasto geniale tra spirito e concezione) è un film intrappolato, chiuso, messo all'angolo: prigioniero di una passerella che porta al nulla, stretto nell'abitacolo scomodo di un aereo, nascosto nella pancia di metallo di navi squarciate dal sibilo dei siluri. In quel preciso, maledetto, momento: che è adesso, che è sempre. Perché sia chiaro, nessuno si chiami fuori: siamo tutti lì, uno accanto all'altro, su quel pontile. Ad aspettare un miracolo, un segno, una svolta. Umanità indifesa, col nemico alle spalle e il mare di fronte: nella grande attualità di naufragi, nell'incertezza di un'esistenza perennemente minacciata e comunque esile, fragile, appesa. Là dove si è eroi anche senza indossare una divisa: perché <non possiamo sottrarci: abbiamo un lavoro da fare>.
E' il 1940: 400.000 soldati per lo più inglesi si ritrovano inchiodati sulla spiaggia di Dunkerque, in Francia. Casa è appena al di là dell'orizzonte, ma sotto il fuoco dei nazisti sembra irraggiungibile. C'è un'unica speranza: una clamorosa evacuazione via mare con l'aiuto delle imbarcazioni civili...
Terra, acqua, cielo: diviso in tre movimenti, su tre piani e condotto attraverso tre storie contigue e contemporanee, destinate (in una gestione affascinante della relatività dello spazio e del tempo tipica del maestro di <Inception> e <Interstellar>) a incontrarsi, <Dunkirk>, il bellissimo film di Christopher Nolan che di fatto apre la stagione cinematografica 2017-2018, batte sempre e solo su una nota, quella dell'angoscia (martellante e implacabile la colonna sonora di Hans Zimmer), alzando il volume dell'ansia nel mondo in cui nessuno è più al sicuro, dove tutto e tutti sono un bersaglio sotto il tiro di un nemico invisibile, senza faccia. Paura, altruismo, tragedia, caos, morte, coraggio, orgoglio, vergogna: nel cinema di Nolan non c'è posto per i vincitori, non si fanno prigionieri. Ma non c'è disonore in una fuga che, sulla via del ritorno, trasforma (come in <Apollo 13>) un fallimento in un successo. Il resto è sabbia, dolore, vento: quello che sferza i volti di un grande cast (da Kenneth Branagh a Mark Rylance e Cillian Murphy, passando per il <deb> Harry Stiles degli One Direction e dal migliore di tutti, Tom Hardy, che recita solo con gli occhi), chiamato a dare conto del meglio e del peggio dell'umanità.
Dedicato <ai nostri figli e nipoti ancora ostaggi di un mondo tra estremismi e barriere>, <Dunkirk>, spettacolare e potente sin dalle prime sequenze, scappa ma non retrocede, subisce ma non si arrende. Per una volta, <sopravvivere è abbastanza>. Anzi, è tutto: l'unico modo per ricominciare, resistere, provare a credere ancora in un domani. Che possa spazzare via l'odio di ieri ma cancellare anche le inquietudini e i tormenti dell'oggi.
Toccante e segreto: Arrival, incontri ravvicinati con l'anima
C'è l'accettazione dell'altro, ma anche, e soprattutto, quella (ancora più profonda, sottile, pesante) del proprio destino, che è indivisibile, tuo e di nessun altro: un domino di giorni e di emozioni, di flash e di deja vù, che anche se sapessi già come va a finire rifaresti comunque tutto. A costo di accogliere anche un lutto devastante, quando forse potresti risparmiartelo: pur di (ri)vivere ogni istante, ogni sorriso, ogni, bellissimo e maledetto, momento.
E' fantascienza alta, cerebrale, fredda, claustrofobica eppure parla all'uomo - alle sue ansie, alle sue debolezze - quella di <Arrival>, l'affascinante film con cui il canadese Denis Villeneuve (è il regista, bravissimo, de <La donna che canta>, <Prisoners> e <Sicario>) spezza la linearità del tempo per riflettere sull'ambiguità del linguaggio (che influenza e limita il nostro modo di pensare), là dove - in un mondo diviso come il nostro - l'arma più forte (nonché l'unica ormai possibile) è la comunicazione, ultima rivoluzione possibile, vera e indiscutibile conquista di civiltà.
Tratto da <Storia della tua vita>, il bellissimo, magnetico, racconto di Ted Chiang, <Arrival> è un film denso e complesso, che guarda a <Incontri ravvicinati del terzo tipo> ma anche a <Contact> (e prende spunto da basi scientifico-filosofiche come <Inception> e <Interstellar>), dove gli alieni sono la scusa o forse l'alibi per allargare la profondità di campo (e di visione) di una coscienza comune. Perché se non lo sai anche l'anima ha codice: e tocca decifrarlo.
Dodici astronavi sbarcano sulla Terra: gli extraterrestri hanno la forma di enormi polpi a sette tentacoli e si esprimono con segni incomprensibili. Cosa vogliono? Che intenzioni hanno? Toccherà alla linguista Louise Banks (Amy Adams, intensa e dolente) tentare di capirlo: ma il tempo stringe e qualcuno è già pronto a scatenare una guerra totale...
Opaco, segreto, privo volutamente di luce squillante, inizialmente doloroso eppure aperto alla speranza di una comprensione (anche di sè) possibile, l'ambizioso fanta thriller esistenziale di Villeneuve (che quest'anno porterà sullo schermo anche la scommessa più grande della sua carriera, il sequel di un cult assoluto come <Blade runner>) rifiuta i trucchi del genere, puntando su un approccio rigoroso e colto che evita accuratamente facili spettacolarizzazioni. Per immergersi invece nella necessità degli eventi: dove quel lento capirsi, quell'accettare un futuro estremo ma vero, guadagnato e speso, più di tutto rende <Arrival> un film toccante, come il tenero abbraccio di chi già conosce la propria e l'altrui sconfitta.
The martian: se Robinson Crusoe incontra Sofocle e gli Abba
E' un misto tra <Robinson Crusoe> e il <Filottete>, ma con le canzoni degli Abba. Sofocle, Defoe e la disco music nello stesso film? Beh, se hai fatto <Blade runner>, lanciato la saga di <Alien> e reinventato un genere con <Il gladiatore>, <forse> te lo puoi anche permettere... Gira intorno al pianeta uomo – e alle sue mille risorse -, <Sopravvissuto-The martian> (il titolo italiano era proprio necessario?), il fanta kolossal ingegnoso ed emozionante con cui il veterano Ridley Scott suggella l'incontro tra space odissey e cine-survivor, regalando a un astronaufrago del terzo millennio l'eterno mito della frontiera, qui nelle vesti, inospitali assai, di un irrespirabile pianeta color ruggine.
Un po' <Cast away> e un po' <Apollo 13>, umanista fino al midollo e marchiato dal sacro fuoco dell'ottimismo (e della fiducia: in se stessi prima di tutto), <The martian> è un inno senza deroghe (né incertezze) al coraggio e alla volontà, là dove la vita è più forte della morte e non esiste deserto – nemmeno quello della solitudine – che non si possa attraversare.
Il botanico Mark Watney (Matt Damon, in un'interpretazione molto empatica) viene abbandonato su Marte durante una missione della Nasa andata storta: i suoi compagni lo credono morto, ma in realtà non è così. Quando si risveglia – solo, con pochi viveri e incapace di comunicare con la Terra – dovrà dare fondo a tutte le sue conoscenze per sopravvivere.
Usa un crocifisso per accendere il fuoco, produce l'acqua grazie a una formula chimica, si serve dei suoi escrementi come fertilizzante; e se il ketchup è finito, niente drammi: c'è pur sempre il vicodin... Quanto <Interstellar> era filosofico, tanto <The martian> è pratico, quanto quello rifletteva sul senso del tempo e sulle sue trappole metafisiche, tanto questo vive un giorno per volta pensando pragmaticamente come portare a casa la pellaccia. Fatto del suo astronauta un emblematico eroe positivista che non include la resa tra le proprie opzioni, Scott celebra, in un film spettacolare e divertente (sì, avrebbe potuto essere più intimista, più interiorizzato: ma se spendi oltre 100 milioni di dollari cerchi pure di riprenderli...), la forza (anche morale) dell'individuo, l'all american boy che non può (culturalmente) darsi per vinto. Non prima, almeno, di tornare a casa (che, non mi stanco di ripeterlo, è un concetto alla base dell'identità a stelle e strisce): e di compiere un viaggio che, inevitabilmente, è anche dentro di sé.
I 10 film più belli di questa stagione. E perché
Ok, la stagione cinematografica 2014-2015 è andata. Come? Abbastanza bene, grazie. Non so voi, ma io di film belli quest'anno ne ho visti parecchi: tanto che non è facile stilare una classifica dei primi dieci (con relativi "dischi caldi"). Ci provo, pensando a quelli che, per un motivo o per l'altro, ho amato di più: con la certezza che, come tutte le classifiche, oltre che di emozione e ragionamento è frutto del sentimento del momento, di una giornata afosa e di non c'è neanche una coca in frigo (che è meglio così perché tanto fa ingrassare...)
1. MOMMY
Perché lo schermo è stretto ma ci sta dentro (energia, violenza, amore...) tutto. Anche se a volte conta di più quello che sta fuori.
2. BOYHOOD
Perchè sembra non succeda niente e invece succedde tutto. E il tempo è un attimo, un battito di ciglia: anche se ci sei stato dietro (e dentro) 12 anni.
3. FORZA MAGGIORE
Perché ti seppellisce sotto una valanga e non ti dà nemmeno una vanga con cui scavare. E perché di film sulla coppia così fondi se ne vedono pochi.
4. BIRDMAN
Perché è audace, sotto tutti i punti di vista: molto più di una passeggiata in mutande in pieno centro.
5. AMERICAN SNIPER
Perché il vecchio pistolero Clint sa sempre fare centro e il suo cecchino è un personaggio enorme quanto controverso.
6. DUE GIORNI, UNA NOTTE
Perché dietro la domanda della Cotillard c'è il senso stesso della crisi che viviamo. E del riscatto dell'etica.
7. FOXCATCHER
Perché è un film nero e sfortunato, difficile ma denso: un dramma fisico e perdente.
8. WHIPLASH
Perché conosce l'inferno del talento, perchè è perfido e sa cos'è il ritmo. E perché l'ultima sequenza strappa l'applauso a scena aperta.
9. IL RACCONTO DEI RACCONTI
Perché ci vogliono le palle e non parlo di quelle da tennis. E perché la favola a volte racconta meglio della realtà le ossessioni contemporanee.
10. INTERSTELLAR
Perché c'è di meglio: ma questo, oltre che un film sulla ricerca, è un film sull'assenza, sulla mancanza. E io so cosa vuol dire.
Tra i dischi caldi, ossia tra quei film che meriterrebero di stare anche loro nei 10, nomino in ordine sparso questi: Sils Maria, L'amore bugiardo, Lo sciacallo, Vizio di forma, Il regno d'inverno, Leviathan, Timbuktu, Mia madre, I nostri ragazzi.