2019, 2018, Festival Filiberto Molossi 2019, 2018, Festival Filiberto Molossi

La donna elettrica, doppia vita di un’eroina ambientalista

E' un film differente, questo: che già di per sé è un motivo valido per prestargli attenzione. Differente per provenienza (avete visto molti film islandesi quest'anno?), per ambientazione (mai scontata), ma soprattutto per la forza morale e ideologica, il legame con la Terra viva e il doppio fondo di un'inaspettata eroina di mezza età, cordiale maestra di cori specialista in azioni di sabotaggio.

Una come Halla (Halldóra Geirharðsdóttir, molto molto brava), le foto di Gandhi e Mandela alle pareti,  nessun marito, poche frequentazioni e una perfetta – e assai  movimentata -  vita segreta: è lei infatti l'ecoterrorista a cui il governo sta dando, invano, la caccia da mesi, autrice di alcune azioni clamorose contro le multinazionali che stanno attentando al benessere del suo splendido Paese. Un giorno però scopre che la sua vecchia richiesta di adozione è stata accettata: un'orfana ucraina di 4 anni la sta aspettando...

Originale per concezione e impianto narrativo (per nulla parco di sorprese), <La donna elettrica> (non un granché, a dire il vero, il titolo italiano) fonde l'apologo ambientalista con la commedia più paradossale, il ritratto di signora con un convincente (anche se non  prioritario) intreccio thriller, i dilemmi etici con le convinzioni più ferme: il tutto per dare voce, per mezzo di un registro che sfugge ai codici più riconoscibili e codificati,  a un'idealista e moderna (e materna?) Robin Hood che dichiara guerra al sistema, combattendo la battaglia che il pianeta non può affrontare da solo.

Se il rapporto simbiotico con la natura (madre come e più della protagonista) è prevalente, molto altro funziona in questo oggetto curioso: dai ripetuti inserti surreali (la band vintage e il trio ucraino in abiti tradizionali spesso in scena, sfondi in movimento che dettano non solo i tempi musicali) ai numerosi spunti ironici, dalla regia pulita (di Benedikt Erlingsson) alle spigolature (il primo sospettato? E' sempre uno straniero...) politiche. Fino al finale, bello e rocambolesco, a sorpresa: quando una bambina in braccio a cui va restituito il sorriso diventa l'unica speranza nel mondo che si ribella.

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2015, Recensione Filiberto Molossi 2015, Recensione Filiberto Molossi

Rams: di uomini e di pecore. E di antichi rancori

Di uomini e di pecore. E' un film sospeso, dove il tempo non ha ragione di passare, <Rams>: ibernato in una terra di nessuno come un vecchio e cieco rancore di cui forse si è perso persino il filo, la causa, la ragione. Intransigente quanto l'astio e rigido come le stagioni, incastrato in un luogo non luogo dove il Natale lo festeggi da solo: e ti fai pure il regalo. Un film di barbe lunghe, risentimenti antichi e spessi maglioni di lana: ma, più di tutto, un film curioso. Che al giorno d'oggi no, non è poco. Singolare (e ruvido) nell'ambientazione – un'Islanda rurale e isolata, finalmente né da spot né da cartolina, in cui il paesaggio è terzo, spesso scomodo, interlocutore tra i due protagonisti -, spigoloso e reticente nei caratteri, onesto nel raccontare una normalità e un quotidiano (se felicemente o no giudicate voi) fuori dal mondo e dall'omologazione.

Gummi e Kiddi sono due anziani fratelli che non si parlano da 40 anni: i pochi, rari e per nulla concilianti, messaggi se li scambiano grazie a un cane, improvvisato postino. Entrambi pastori, vivono per superarsi all'annuale premio per il miglior montone: ma un giorno, a causa del pericolo di un'infezione, il sistema sanitario gli intima di abbattere tutte le loro bestie...

Vincitore di <Un certain regard> all'ultimo Festival di Cannes (la giuria era presieduta da Isabella Rossellini) e candidato a miglior film dell'anno agli Efa, gli Oscar europei, <Rams>, nonostante una locandina e un sottotitolo (<storia di due fratelli e otto pecore>) fuorvianti che lo vendono come una commedia (quando invece, al di là di una certa paradossale ironia, il contesto è più che serio), è un dramma familiare dove riconoscere l'inutile ostinazione dell'odio e del livore, un film di stati d'animo, magari sin troppo elementare e scarno, ma efficace nel cogliere, in quella ostile solitudine, il rapporto esclusivo tra uomo e natura e tra uomo e animale. Che può anche risultare, improvvisamente, commovente.

Un cinema di piccole cose e di poche parole ma di sentimenti fondi, ancorati, essenziali eppure stratificati, quello di Grímur Hákonarson, 38enne islandese all'opera seconda: dove, prima che sia troppo tardi, nella tormenta che infuria è anche possibile ritrovarsi e riscoprirsi fratelli.

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