Le nostre battaglie: la guerra della vita
E' fatto di un realismo struccato e pallido, come una giornata senza sole, tra felpe di seconda mano e straordinari non pagati, <Le nostre battaglie>: nella routine di una guerra che non finisce mai, dove il bancomat è già a secco il 12 del mese e la vita è comunque e sempre precaria. Parte come un film sul lavoro che logora anche chi ce l'ha quello del franco-belga Guillaume Senez, ma poi, poco a poco, diventa altro: un film sull'assenza, sul vuoto, su un quotidiano resistere – che ha qualcosa di disperato e insieme etico – al mistero di un esilio, alla voglia di smettere di lottare, di provare (perché no) a essere felici.
Sincero e pratico, misurato, nella descrizione dell'umana fragilità di esistenze complesse, l'opera seconda di Senez, premio del pubblico al Festival di Torino, colpisce a freddo e senza preavviso: un giorno la moglie di Olivier, operaio e sindacalista 40enne di una fabbrica alienante, se ne va. Sparisce nel nulla, mollando tutto: impiego, città, ma anche marito e figli che ama. Costretto a reinventarsi come padre, soffocato dagli interrogativi e dalle urgenze, Olivier (Romain Duris, magnifico Cipputi) combatte, dentro e fuori casa, per non crollare.
Tormentato, mai retorico né accusatorio, asciutto eppure empatico nell'affrontare un privato spiazzante, in quel contorcersi senza spezzarsi, il film si stringe a un personaggio confuso, arrabbiato, indifeso e impreparato davanti (in famiglia come in fabbrica) alle scelte degli altri: incapace di riconoscere i segnali della malattia, ma infine in grado di sopportarne la convalescenza. Per ripartire, al di là di quello che è lecito capire: e andare incontro, senza illusioni ma con rinnovata speranza, a un giorno migliore.