May December, due donne allo specchio
Due donne allo specchio: un'immagine che si sovrappone l'una all'altra, che si moltiplica fino a diventare la stessa. In un continuo gioco di seduzione e repulsione, dove ci si trucca (e si viene truccate) per diventare qualcun altro, in uno sdoppiamento dove l'arte tenta di replicare la realtà, ma finisce con il contagiarla o restarne, al contrario, prigioniera. E' un film interessante, complesso e in un certo senso anche bizzarro «May December» dell'americano Todd Haynes, dove «Eva contro Eva» incontra la commedia dark, lo psicodramma, il metacinema: una superficie riflettente e rivelatrice (anche di quello che non vorremmo sapere) su cui il regista apparecchia una pellicola dicotomica, a tratti corrosiva ma più spesso, problematica, «traumatica».
Un'attrice famosa vuole girare un film su uno scandalo che ha scosso anni prima la tranquilla cittadina di Savannah: qui, una donna di 36 anni si innamorò di un ragazzino di 13, abbandonando la famiglia per stare con lui. Oggi i due sono sposati e hanno dei figli pronti per il college: e accettano di ospitare la star - che dovrà interpretare la parte della donna - per raccontare la loro storia...
Meno raffinato che nei suoi melò più celebri («Lontano dal paradiso», «Carol»...), Haynes qui preferisce giocare con gli stilemi della soap opera e del tabloid (che divorò la vita della coppia, così come anche l'attrice in un certo senso la vampirizza) spingendo (lui da sempre grande cantore dell'eterno femmineo) sul confronto, in apparenza cortese, ma ambiguo e velenoso, tra le donne (Natalie Portman e Julianne Moore, entrambe molto brave), per rivelare però anche il dramma intimo e non conclamato di un uomo rimasto ragazzo, bruco che ancora non è diventato farfalla. «May December» (il titolo è un modo per indicare la pesante differenza di età in una coppia...) guarda a «Persona» di Bergman, denunciando il voyeurismo molto attuale (anche da parte del cinema) della condizione umana. E condannando il nostro rifiuto di «guardarci onestamente».
Todd Haynes spalanca La stanza delle meraviglie
I bambini ci cercano: e scappano, chiedono, sognano. Forse anche, non a torto, pretendono: un briciolo di attenzione, ad esempio. E un posto in un mondo, che invece sembra sordo alle loro domande e ai loro desideri.
Tra protesta, ribellione e ricerca di sè: in fuga, nella speranza di un altrove. Come i protagonisti di <La stanza delle meraviglie> dell'americano Todd Haynes (il grande regista di <Lontano dal paradiso> e <Carol>) che si muovono addirittura su un doppio binario temporale, finendo, grazie a un toccante corto circuito narrativo, col convergere.
Le vite parallele di un bimbo del '77 e di una ragazzina di 50 anni prima: lui, persa la madre, si muove verso New York in cerca del padre che non ha mai conosciuto, lei, vessata da un padre padrone, nella Grande Mela spera invece di incontrare l'attrice dei suoi sogni...
Raffinatissimo nel suo suggestivo contrappunto anche stilistico - la parte del '27 è raccontata in bianco e nero come un film muto, anche per creare piena adesione ed empatia con la piccola protagonista, sorda dalla nascita, mentre quella del '77 è satura dei colori e della musica (a partire da <Space oddity>, tributo a Bowie, utilizzata nella versione italiana anche da Bertolucci in <Io e te>) di quegli anni vibranti -, <La stanza delle meraviglie> trasforma in immagini (con la nota cura maniacale, quasi feticista, di Haynes per i dettagli) un romanzo di Selznick (lo stesso di <Hugo Cabret>) e ne ripropone lo stupore, che è proprio dell'infanzia ma è parte fondante anche del cinema.
Bambini che ci guardano e ci giudicano: soli, emarginati, indifesi eppure coraggiosi. Bambini che in qualche angolo recondito della memoria, una volta o l'altra, siamo stati anche noi. In un tempo perduto, smarrito, quando sentivamo solo con il cuore: come questo film, sordo ai rumori del mondo, ma attento a quelli interiori, in perenne ascolto di quel caos per nulla calmo che agita lo spirito fanciullo, la magia ancora vergine dell'avventura di crescere.
A Cannes, dove venne presentato l'anno scorso (arriva in sala 14 mesi dopo la prima al Festival, pazzesco: ma meno male che qualcuno ci ha pensato...), c'è chi lo trovò estetizzante: a noi, però, ha emozionato. E non tanto per l'indiscutibile, e coltissima, cinefilia; ma per quello sguardo dal basso, ad altezza bambino: che è continua scoperta, desiderio di conoscenza, voglia di verità. L'unica fiaba che nessuno vuole mai raccontarci.
Seduzione, stile e un paio di guanti: Carol, la classe non è acqua
Ci sono film dove ha un senso, un significato, anche lo smalto per le unghie: e un paio di guanti dimenticati (non) per caso, un gioco di sguardi, un gesto apparentemente banale come una mano che indugia su una spalla o un piede che cerca la sua scarpa. Lo ha girato un regista interessato alle persone (alla natura e all’onestà dei loro sentimenti, così come alle loro privazioni) rievocando un’epoca - i borghesi anni ‘50 di Eisenhower - dove i giornali e le foto raccontavano tutto, uno dei film più belli e stilisticamente seducenti di questa stagione.
Tratto da un romanzo «scandalo» che Patricia Highsmith firmò con uno pseudonimo, candidato a 6 Oscar, l’ultimo, affascinante ed elegantissimo (dio è nei dettagli, come si dice) melodramma di Todd Haynes, racconta la storia d’amore (proibita per quei tempi) tra una donna sposata, madre di una bimba che adora, e la giovane commessa di un grande magazzino. Una forse insegue quella che non è più, l’altra la donna che non sarà mai: due personaggi bellissimi, vittime dei propri desideri, in bilico sul crepaccio del momento sbagliato (ma ne esiste uno giusto per amare e essere amate?), in fuga da un mondo che non le può capire, dalla soffocante messa in scena delle apparenze.
Ricreata la New York di 60 anni fa a Cincinnati, Haynes, tornato dietro la macchina da presa a 8 anni dal «dylaniato» «Io non sono qui» cita (non a caso) «Viale del tramonto» e guarda a «Lontano dal paradiso» (il suo film più noto) dimostrando splendida calligrafia e una classe che ha pochi uguali, spendendosi con attenzione e generosità in una ricostruzione raffinata che non riguarda solo gli ambienti (non più muti né inerti) ma arriva direttamente all’anima delle cose. Tra aneliti di libertà e differenze sociali, uomini deludenti e rivoltelle scariche, il regista dà spessore a una passione che si consuma, spesso e volentieri, dietro a vetrate, vetrine, finestrini bagnati dalla pioggia: come se ci fosse sempre qualcosa, un ostacolo trasparente eppure tangibile, a separare le due amanti; facendone allo stesso tempo un’intima scelta formale, un distacco dovuto, una sorta di rispetto, colma di riconoscente cortesia, per le sue protagoniste. A cui prestano molto più che un volto Cate Blanchett e Rooney Mara (migliore attrice, ad ex aequo con Emmanuelle Bercot, dell’ultimo Festival di Cannes), fantastiche.