Green book, due uomini in viaggio sulla strada dell’amicizia
Due uomini in macchina: tasti neri e tasti bianchi, un mucchio di chilometri, pollo fritto a volontà e qualche cazzotto, mai dato invano. Sulla strada – lunga ed impervia - della diversità e dell'intolleranza, la storia di un'imprevedibile amicizia capace di andare oltre le differenze sociali, la razza, i pregiudizi. Perché nella scoperta dell'altro, sta anche quella dei propri limiti, delle proprie debolezze. E' un film umanista, divertente, sentimentale, <Green book>: e più di tutto, una lezione di dignità nell'America che i Kennedy cercarono di cambiare ma che poi – si sa - non è cambiata così tanto.
Film super classico, ultra tadizionale, di quelli che gli americani ci vanno a nozze (dopo il Golden Globe per la migliore commedia dell'anno, prova a essere il terzo incomodo tra i due litiganti <Roma> e <La favorita> nella corsa all'Oscar), <Green book> è road movie di caratteri, tutto giocato sul dualismo un po' scontato ma efficace tra i due, antitetici, protagonisti: il bianco grezzo, razzista, proletario e pratico e il nero colto, raffinato, elitario e solo. Al secolo, il fenomenale pianista afroamericano Don Shirley e il suo autista italoamericano dalla fame inestinguibile Tony Vallelunga. Che ha il compito di portare – e scortare – il primo nel profondo Sud del '62, dove i ricchi bianchi applaudono al talento del geniale musicista di colore ma non gli permettono di usare il loro stesso bagno...
Ispirato a una storia vera (quella del padre di uno degli sceneggiatori), ritmato nei dialoghi e nei sapori, nell'evoluzione di un confronto e di una (reciproca) consapevolezza, il film di Peter Farrelly (sì, è quello di <Tutti pazzi per Mary>) stenta a sposare una visione realmente originale (il riferimento principale è ovviamente <A spasso con Daisy>) ritagliandosi una prevedibile comfort zone che però trova il suo perché grazie alle prove di Mahershala Ali (ora in tv in <True detective>) e, soprattutto, di un formidabile Viggo Mortensen che, ingrassato oltre 20 chili per il ruolo, firma un'interpretazione di fisica e vorace intensità.
Moonlight, anatomia dell'anima
Il primo bagno in mare (quasi come un altro battesimo), la sedia rotta in testa al bullo crudele della scuola, certi silenzi impacciati, certe questioni irrisolte, il carico di un non detto che pesa su spalle mai, nonostante i pesi e la palestra, troppo robuste: ha cose belle (alcune anche molto) <Moonlight>, il film che dopo avere inaugurato la Festa del cinema di Roma, è andato a prendersi 8 nomination all'Oscar: parabola umana piena di scelte obbligate (o semplicemente sbagliate), fallimenti, ferite. Un romanzo di formazione total black, una faticosa affermazione (anzi ricerca) di sè divisa (complice decisi sbalzi temporali) in tre capitoli, ognuno a rappresentare una fase della vita del protagonista.
Infanzia, adolescenza e età adulta di Chiron, bimbo timido con madre tossica perseguitato dai compagni di scuola, che cresce con un pusher che gli fa da padre putativo (Mahershala Ali, bravissimo) e non sempre riesce a convivere con una debolezza che è parte di lui. Provando a emanciparsi, cercando di capire chi vuole davvero essere: tra complessa accettazione della propria omosessualità, trasformazione fisica (una corazza sotto cui nascondere il proprio malessere) e desideri (anche di riscatto) repressi.
Prodotto da Brad Pitt, <Moonlight> è un film diretto da Barry Jenkins con non banale sensibilità e un bel taglio di inquadratura: sempre vicino, accanto a Chiron, come se la macchina da presa fosse l'unica a cui interessasse davvero qualcosa del protagonista. Un atteggiamento empatico, un modo di raccontare in modo morbido situazioni anche terribilmente pesanti: per dare più che una voce un volto a un processo interiore che porta sullo schermo non solo una storia ma un'anima.