Moonlight, anatomia dell'anima
Il primo bagno in mare (quasi come un altro battesimo), la sedia rotta in testa al bullo crudele della scuola, certi silenzi impacciati, certe questioni irrisolte, il carico di un non detto che pesa su spalle mai, nonostante i pesi e la palestra, troppo robuste: ha cose belle (alcune anche molto) <Moonlight>, il film che dopo avere inaugurato la Festa del cinema di Roma, è andato a prendersi 8 nomination all'Oscar: parabola umana piena di scelte obbligate (o semplicemente sbagliate), fallimenti, ferite. Un romanzo di formazione total black, una faticosa affermazione (anzi ricerca) di sè divisa (complice decisi sbalzi temporali) in tre capitoli, ognuno a rappresentare una fase della vita del protagonista.
Infanzia, adolescenza e età adulta di Chiron, bimbo timido con madre tossica perseguitato dai compagni di scuola, che cresce con un pusher che gli fa da padre putativo (Mahershala Ali, bravissimo) e non sempre riesce a convivere con una debolezza che è parte di lui. Provando a emanciparsi, cercando di capire chi vuole davvero essere: tra complessa accettazione della propria omosessualità, trasformazione fisica (una corazza sotto cui nascondere il proprio malessere) e desideri (anche di riscatto) repressi.
Prodotto da Brad Pitt, <Moonlight> è un film diretto da Barry Jenkins con non banale sensibilità e un bel taglio di inquadratura: sempre vicino, accanto a Chiron, come se la macchina da presa fosse l'unica a cui interessasse davvero qualcosa del protagonista. Un atteggiamento empatico, un modo di raccontare in modo morbido situazioni anche terribilmente pesanti: per dare più che una voce un volto a un processo interiore che porta sullo schermo non solo una storia ma un'anima.