2020, Recensione, Festival, Protagonisti Filiberto Molossi 2020, Recensione, Festival, Protagonisti Filiberto Molossi

Diego e Maradona: le due anime del dio del calcio

In ricordo di Diego Armando Maradona, il mio pezzo sul documentario che l’anno scorso gli dedicò, tra luci e ombre, Asif Kapadia

O mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Ha ragione lui, il suo personal trainer, forse la persona più fidata dei tanti (troppi) che gli stavano intorno: «C’è un Diego e un Maradona: e il primo non ha niente a che fare con l’altro». Uno era il fenomeno del pallone, il ragazzino che trascinò via a suon di gol la sua famiglia dalla bidonville, il condottiero ribelle che sancì il riscatto di Napoli e del Sud, l’idolo delle folle che guidò la rivincita degli ultimi: l’altro, invece, era il malato di sesso e cocaina, l’amico dei camorristi, il campione incapace di reggere la pressione soffocante di una città, madre e matrigna, che lo considerava alla stregua di un semidio o, come minimo, di San Gennaro. Ci sono entrambi, sia Diego che Marado nel bel documentario con cui Asif Kapadia (premio Oscar per il film che ha dedicato alla vita di Amy Winehouse), attraverso materiale di repertorio e molti video inediti (500 ore di girato scremati e montati fino a farne un film di 130 minuti), racconta, fuori concorso, un mito dell’«arte dell’inganno» (così il più forte di tutti definì il calcio), giocando sul quel dualismo interiore, su quelle due anime così diverse, così distanti, eppure costrette a convivere. L’arrivo al San Paolo, il gol all’Inghilterra, i giochi con la figlia a cui insegnava a insultare Juve e Milan... Niente che non si sappia, niente di particolarmente nuovo: eppure il film, accompagnato dalle testimonianze audio dello stesso Maradona, dei suoi familiari e delle persone che gli sono state - professionalmente e non - più vicine, ha una verità, un’autenticità che per verificarla non c’è bisogno del Var. Kapadia (che trova e mette in relazione, tra le migliaia che ha visionato, immagini anche molto potenti e rivelatrici) non fa sconti né all’uomo né alla leggenda: come quando, ormai grasso e patetico Diego gioca a calcetto dove nessuno gli passa più nemmeno la palla: triste y final.

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La giovinezza: l'irresistibile tentazione di un ultimo palleggio

<Uomini, animali, piante: che differenza fa? Siamo tutti dei figuranti>.

In un luogo che è nessuno e insieme tutti, dove <le emozioni sono sopravvalutate> e la leggerezza <una tentazione irresistibile>, la sfacciata arroganza della (grande) bellezza incontra, sulla pedana circolare della vita che resta - sfinito girotondo -, il corpo sfatto della malinconia, che poi è il destino di non essere capiti, di essere, semplicemente, <passati>. Come il tempo, che ti sfugge quasi fosse acqua tra le mani, corre, scappa senza voltarsi indietro. Come i ricordi, che verranno dimenticati, cancellati: quella ragazza tempo fa, le battute di un film, persino un palleggio mancino che ti pareva potesse durare un'eternità. Tutti quegli sforzi per nulla, tutti quei gesti - una volta sicuri, certi, definitivi - smarriti in un'inevitabile decadenza: tutte quelle cose - i sentimenti, le parole mai dette, i rimpianti - che, forse, non si possono più aggiustare. Nel loop del disincanto, dove però, nonostante tutto, si resta ancora aggrappati (come in <Mia madre> di Moretti) al domani. E si scende a patti col presente che, ora e dopo, è l'unico vero futuro possibile.

E' come una carezza data ai figli mentre fingono di dormire, <La giovinezza>: una visionaria, potente, antinarrativa (e a tratti autoreferenziale), riflessione sul tempo che muore, tra orrore e desiderio, canzoni de <Il tempo delle mele> e mucche <musicali>, Novalis e Stravinskij, Hitler e - persino - (il sosia di) Maradona...

Surreale, felliniano (se <La grande bellezza> aveva più di qualcosa in comune con <La dolce vita> qui il termine di paragone è <8 1/2>), inventivo, il nuovo, attesissimo, film di Paolo Sorrentino, struggente e divertente allo stesso tempo, ci porta in un resort di lusso sulle Alpi: quello dove trascorrono le vacanze due vecchi amici, un direttore d'orchestra che si è ritirato dalle scene e un regista che vuole girare il suo film testamento.

Scritto e diretto dal regista napoletano (già pronto a una nuova avventura, la serie per il piccolo schermo <Young Pope> con Jude Law) con l'abituale, meravigliosa, fotografia, di Luca Bigazzi e un supercast di levatura internazionale (Michael Caine truccato da Servillo, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano e persino Jane Fonda), <La giovinezza>, dedicato a Francesco Rosi e realizzato anche col contributo della Barilla, si muove tra alto e basso, serio e grottesco, vanità e rassegnazione, riproponendo un'idea estetica di accecante perfezione e di lirica pulizia: il limite piuttosto, rispetto a un capolavoro come <La grande bellezza> (più sorprendente e toccante), è nella presunzione stavolta tenuta meno a freno, in quell'essere a tratti <piacione>, nel risultare a volte sentenzioso e un po' troppo innamorato di se stesso.

Ricco di trovate, vitale anche nella sua <decadenza>, bello, anche bellissimo, <La giovinezza>: ma un po' paraculo, per dirla come va detta.

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Il Grande Torino, Raf Vallone e la trasferta di Indro

L'altro giorno era l'anniversario della tragedia di Superga: quella che cancellò dai campi,  ma non dagli almanacchi, non dalle pagine scritte con l'inchiostro color leggenda, il Grande Torino. Che non era solo una squadra fenomenale, ma un emblema, un esempio. La squadra dei cinque scudetti consecutivi, ma più di tutto la formidabile compagine che riuscì, in un Paese uscito con le ossa rotte dalla guerra, a fare sognare ancora gli italiani. Bacigalupo, Ossola, Mazzola... : nomi rimasti scolpiti nella memoria. Il Grande Torino (sì, con la g maiuscola) è così grande ancora, e amato trasversalmente qualsiasi sia la fede calcistica di ognuno,  che la partita dei granata con l'Empoli è stata spostata a oggi. Li volevano fare giocare il giorno dell'anniversario di Superga: ma il Toro ha detto no. Quello è un giorno sacro, è un giorno colmo di lacrime e tristezza: quel giorno, noi, non giochiamo.

A caldo, dopo la tragedia aerea, un fuoriclasse del giornalismo, Indro Montanelli, gran tifoso viola, scrisse sul Corriere della sera queste parole, che ancora suonano come uno straordinario epitaffio: "Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto "in trasferta"". Ecco, se vuoi capire Messi o Maradona, secondo me bisogna  da qui: perché in quelle due frasi c'è l'esatta differenza e l'infinito solco tra un colpo di tacco e uno stop sbagliato, un gol in rovesciato e un cross sbagliato che finisce in rete,  un tunnel e una palla in tribuna. Già, il Toro è soltanto in trasferta: roba che mette i brividi anche adesso, la  rabona di un campione della penna. Il Torino, quello Grande, hanno provato a raccontarlo anche per immagini: con un film tv, qualche anno fa, che in realtà non gli rende vera giustizia.

Ma Il Torino, quello che sarebbe diventato Grande ma ancora non lo era, ha incrociato la sua strada con un attore poi diventato famoso, Raf Vallone. Uno che ha avuto una vita straordinaria: ha giocato negli anni '30 in maglia granata (vincendo anche una Coppa Italia), poi è stato partigiano, critico cinematografico e infine attore per caso: bella faccia da attore neorealista, sarà "Riso amaro", uscito proprio nell'anno in cui il Grande Torino andò a schiantarsi a Superga, a lanciarlo. Durante la guerra, miltare, venne arrestato per le sue posizioni antifasciste: era destinato ai campi di concentramento ma un repubblichino lo avvertì in tempo. Si tuffò vestito nel lago di Como, gelido, mentre le SS sparavano dalla riva: riuscì a salvarsi. Era un attore autodidatta, ma ha finito per fare quasi 100 film: da "Il cammino della speranza" a "Roma ore 11", da "La ciociara" a "Il padrino 3". E pure Brigitte Bardot, quella stupenda del '59, subì il suo fascino. Nella finzione del grande schermo, Raf tornò anche a giocare a calcio: il film si chiama "Gli eroi della domenica" e lo ha girato Mario Camerini.  E' del '52 ma già allora il protagonista è vittima di un tentativo di corruzione: "se perdi ti diamo tre milioni"... Gervasoni e Hristiyan lo "Zingaro" arriverranno solo 60 anni dopo, eppure le brutte abitudini sono dure a morire.  Brutte storie: niente a che vedere con quella, luminosa, del Grande (sì, la g è maiuscola) Torino.


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50 sfumature di grigio: se Cenerentola si fa prendere a sculacciate

Innanzitutto un'avvertenza: una volta tornati a casa resistete alla tentazione di imitare i due protagonisti. Che è un attimo poi leggere sui giornali di casalinghe (ovviamente disperate) salvate dai vigili del fuoco perché il marito non riusciva più a liberarle da lacci, lacciuoli, cravatte e catene. O di attempate signore che, sfidando intrepide la menopausa, si procurano un trauma cranico perché con una benda sugli occhi hanno centrato in pieno lo stipite della porta. Sì, insomma: <50 sfumature di grigio> è un film <pericoloso>. Che una magari per San Valentino si aspetta il braccialetto (sì dai: magari anche quello col nome) e le arrivano in regalo le manette...

Ma com'è quindi l'ultra attesa traduzione per lo schermo del romanzo porno chic a sfondo erotico/rosa da oltre cento milioni di copie vendute? Un film, a dirla tutta, più esplicito che sfumato, ma anche improbabile e noioso: una saga patinata e sado-demenziale che è molto più vicina a <Pretty woman> che non a <Nymph()maniac> (o a <Histoire d'O>). Tanto che per le oltre due ore di durata ti chiedi se i due amanti tira e molla (ma pure la regista, Sam Taylor-Johnason, una pallida smagrita con fama di cougar) abbiano mai visto <Lezioni di piano> o, almeno, <9 settimane e mezzo>.

Per carità, non è che manchi l'abc, ma la storia costruita sull'archetipo (rivisitato in chiave, si fa per dire, <hard>) della bella e la bestia – con l'eroina che da brutto anatroccolo cerca di trasformarsi, a forza di sculacciate, in Cenerentola e il milionario fascinoso dal passato oscuro riscattato dall'amore – non è che sta molto in piedi. Anche perché i due personaggi faticano a rendere credibile anche un caffè al bar. Lei, Anastasia (Dakota Johnson, figlia di Don Johnson e Melanie Griffith), studentessa vergine con guardaroba da maria pentita, si morde il labbro come se ne avesse uno di scorta: poi un giorno incontra lui, Mr. Grey (Jamie Dornan della serie <The Fall>), che è molto tutto (elegante, seducente, ricco), e freme come nemmeno una tifosa del Napoli al cospetto di Maradona. Il problema è che lui nella stanza dei giochi non tiene la Playstation e che più che una fidanzata cerca una schiava da sottomettere: mentre la nostra, nel suo piccolo, si accontenterebbe di andare ogni tanto fuori a cena...

Ti cambio io che mi cambi tu, si arriva a un finale apertissimo (all'inevitabile sequel, soprattutto) con la fastidiosa sensazione di un film poco appassionante e coraggioso che, con ipocrisia tutta americana, cerca affannosamente alibi e giustificazioni alle perversioni del protagonista, libero sì, ma solo di essere <riabilitato>. Per la serie che se c'è qualcuno da prendere a scudisciate è la sceneggiatrice...

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