2023, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2023, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Anatomia di una caduta, il thriller della coppia e della verità

Basterebbe quell'inizio: con quella musica sparata a mille che non permette nemmeno una normale conversazione, con la voce che si alza - e trema - ma non basta a frenare, e tanto meno a sovrastare, il mai così insostenibile «P.I.M.P.», brano cult del rapper 50 Cent, che invade l'inquadratura, la riempie, la scuote fino all'insofferenza. Basterebbe quella scena - e la curiosa sequenza dei titoli di testa, con le foto degli interpreti da bimbi o ragazzini - per capire che si è aperta la porta del film giusto.

E' notevole sin da subito, «Anatomia di una caduta», la pellicola molto interessante e ben costruita, con cui la francese Justine Triet ha vinto la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes: un film che la 45enne autrice traveste da dramma processuale per farne in realtà una riflessione ambigua e avvincente sulla dissoluzione di una (o della?) coppia.

Teso e tosto dal principio alla fine (la Triet non lo perde mai di vista, mantenendo alta la guardia per tutta la durata), «Anatomia di una caduta», frutto di una sceneggiatura calibratissima, parte da un mistero da svelare: quello della morte di Samuel, precipitato dal balcone della sua casa immersa nella neve. Si è suicidato o l'ha spinto di sotto la moglie Sandra, una scrittrice tedesca? L'unico che potrebbe sapere qualcosa è il figlioletto della coppia, che però un incidente ha reso anni prima quasi cieco...

Intrigante, intenso, scomodo, capace di giocare intelligentemente con il genere per raccontare molto altro (sulle relazioni interpersonali, sul senso di colpa, sui rapporti di forza), il film, che scaricato dalla Francia nella corsa all'Oscar (la Triet ha probabilmente pagato le critiche al governo francese dopo il trionfo a Cannes), è stato però acclamato negli Usa e potrebbe rientrare nelle nomination dalla porta principale, sfuma il côté hitchcockiano con numerosi svelamenti e continui colpi di scena che cambiano di continuo - in un gioco della verità dove il plastico della casa in tribunale non può non riportare alla memoria la tragedia di Cogne - la percezione dello spettatore nei confronti della protagonista: una bravissima Sandra Hüller, in grado di recitare in tre lingue diverse con la medesima intensità. E riflettere insieme allo spettatore sulla fragilità della verità: che forse è solo quello a cui decidiamo di credere.

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2022, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2022, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Triangle of sadness, l'ultimo selfie sul naufragio del '900

Uno yacht da 250 milioni di euro pieno di turisti oltremodo ricchi che affonda insieme al suo capitano comunista e ubriacone: è il capitalismo, bellezza. Anzi, di più: è il naufragio del secolo breve, la fine ingloriosa del Novecento, ma immortalata dai selfie idioti di questa - instagrammabile (e insopportabile) - nostra epoca. E' il film pazzo, divertente, provocatorio, caustico, feroce e disturbante di un grande regista, «Triangle of sadness», la Palma d'oro (per il 48enne Ruben Östlund è la seconda) dell'ultimo Festival di Cannes: il manifesto apocalittico di un mondo che va (amen e così sia) in frantumi.

Una riflessione lucida e originale (oltre che spietata) che comincia facendo a pezzi (con un prologo molto potente) il mondo della moda (dopo che nel precedente «The square», demoliva quello dell'arte), ma diventa ben presto un film sull'esteriorità, sulla volgarità del denaro («argomento ipersensibile»), sulla lotta di classe e sui rapporti di forza (e i ribaltamenti di ruoli...), nonché, in maniera più allargata, una denuncia grottesca, scatologica e senza filtri (né freni) dei limiti della società (di ieri e di oggi) e del ruolo (fragile assai) del maschio contemporaneo.

Accolto da un boato sulla Croisette, il film, paradossale, schietta, feroce satira in tre atti dello svedese Östlund, cineasta poco avvezzo al compromesso che deride l'orrore della superficialità (e crudeltà) umana ricordandoci alla sua maniera che siamo in un mare di m. (no, questa volta, non è una metafora...), racconta di una coppia di modelli influencer (lei, Charibi Dean, brava e bellissima, è morta due mesi fa a 32 anni stroncata da un malore improvviso), invitati in una crociera super lusso: ma una notte, una tempesta sorprende la nave...

Da Marx alla Wertmüller, dalla Nutella (fatta arrivare con l'elicottero) al matriarcato: delirante e volutamente eccessivo, «Triangle of sadness» (il titolo si riferisce a un uso particolare del botox) non fa prigionieri. E ci sfida, con geniale faccia tosta, su più di un terreno minato: provate voi, se siete capaci, a trovare l'invisibile interruttore dell'ultima lampada che resta, inesorabilmente, accesa...

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Recensione, 2017, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2017, Festival Filiberto Molossi

Moderno, spiazzante, differente: The square fa a pezzi il presente

E' il film più <differente>, originale, cinico, trasversale, moderno e spiazzante che vedrete quest'anno: se è anche il più bello siete in grado di deciderlo da soli. L'opera d'arte complessa, concettuale e (felicemente) destabilizzante di un regista immarcabile: che tra mostre non mostre, gorilla da salotto ed errori a cui non è possibile rimediare, denuncia l'indifferenza patologica della società moderna, colpita a freddo nel calduccio rassicurante del suo quadrato esistenziale, ipocrita santuario di fiducia e altruismo.

E' una grande, sorprendente e dissacrante, riflessione sulla contemporaneità, <The square>, la tragicommedia crebrale con cui lo svedese Ruben Ostlund, a tre anni da quel capolavoro audace e sinistro che era <Forza maggiore>, ha trionfato all'ultimo Festival di Cannes: una provocazione raffinata, implacabile e sempre lucida che mina le nostre già traballanti certezze, facendo esplodere nei mille pezzi di un puzzle fatalmente incompleto le contraddizioni, imbarazzanti e velenose, del presente.

Come nel suo film precedente è una questione di causa ed effetto anche nella parabola personale del  curatore di museo di successo, Christian, a cui un giorno rubano con l'inganno portafoglio e cellulare. Un furto comune, banale, ma che sulla sua vita (e sulle nostre...) avrà conseguenze clamorose.

Attraverso una pungente satira sull'incomprensibile e ostentata vacuità dell'arte contemporanea (davanti a cui ci si sente come Sordi e consorte alla Biennale di Venezia...), Ostlund demolisce, tra senzatetto, quartieri popolari e immondizia, il mito (non solo svedese) del benessere,  mettendo invece in evidenza l'incapacità di venire in aiuto gli uni agli altri e, soprattutto, di comprendere la portata delle proprie azioni. E in quel continuo tirare la corda, in quell'inafferabile sguardo antropologico con cui rompe e scombina le pareti di una realtà che non è più capace di fare quadrato, l'autore, tra alti e bassi narrativi squarciati da momenti potentissimi (la cena di gala <disturbata> dall'uomo scimmia vince per distacco  il premio per la migliore sequenza della stagione...)  racconta molto di noi e della  mancanza di responsabilità di una società borghese per lo più individualista, egoista, decadente.

Là dove l'esistenza è performance, installazione pubblica  la cui routine è mandata in frantumi da grotteschi imprevisti: sconvolto il quotidiano col paradosso, <The square> cerca ostinatamente un punto di rottura. Consapevole che se l'arte è sopravvalutata, anche l'umanità non scherza.

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2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Io, Daniel Blake: Il picchetto morale di Ken il rosso

Ha ancora fiducia nell'uomo, ma sempre meno nell'umanità e per niente nelle istituzioni, Ken Loach, meraviglioso ideologo 80enne di un cinema per sempre militante che ora soffia forte sul vento dell'amarezza, portando il suo realismo civile, il suo picchetto morale, a confrontarsi con le assurdità kafkiane di una burocrazia <assassina>, nello scollamento sempre più drammatico tra gente comune e cosa pubblica, anonimi (anti) eroi del quotidiano e rappresentanti inflessibili e lobotomizzati del potere.

E' la fotografia di una società (è l'Inghilterra che non porta rispetto a poveri, malati, analfabeti informatici e madri sole con figli a carico, ma potrebbe essere anche molti altri posti d'Europa e del mondo) profondamente ingiusta quella che scatta <Io, Daniel Blake>, il migliore degli ultimi film di Ken il rosso: che, con il solito stile secco, sostiene nella sua lotta impari contro il leviatano un falegname 59enne costretto dopo un infarto a chiedere il sussidio. Il suo medico gli ha proibito di lavorare, ma lo Stato non è d'accordo: così, in attesa che Daniel faccia appello per ottenere l'indennità negata, è costretto, pena una severa sanzione, a cercare comunque un altro lavoro... Nel frattempo, bloccato nella speranza di una risposta dall'alto, conosce Kate, madre single di due figli costretta a spostarsi di 450 chilometri per avere un alloggio popolare: si aiuteranno a vicenda.

Formulari da scaricare esclusivamente sul Web, assistenti sanitari che ti lasciano in attesa al telefono quasi due ore, lezioni per imparare (a pochi anni dalla pensione...) a rendere accattivante un curriculum: sotto un cielo perennemente grigio, in un labirinto cieco di paradossi amministrativi, Loach racconta l'odissea della vittima di una burocrazia illogica e arrogante, l'utopia di un uomo che vorrebbe essere considerato semplicemente un cittadino, <niente di più e niente di meno>.

Deluso dai tempi moderni, da un'era digitale che ha aumentato le differenze e le sperequazioni invece di limarle - e a cui il regista inglese oppone l'estro poetico della manualità, di un artigianato che ormai va scomparendo - Loach celebra la solidarietà tra gli ultimi, ma non si fa più illusioni: non siamo ai livelli di <Piovono pietre> e forse neanche di <My name is Joe>, ma la denuncia sociale arriva nitida, chiara, puntuale. Per quanto a tratti prevedibile, <Io, Daniel Blake> - Palma d'oro a Cannes (la seconda per Loach,il più anziano a vincerla) - sa colpire duro senza mai alzare la voce e regala sequenze che da sole valgono il prezzo del biglietto: come quando Kate, affamata, apre e mangia, per poi sprofondare nella vergogna, una scatola di pelati.

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Recensione, 2015 Filiberto Molossi Recensione, 2015 Filiberto Molossi

Dheepan, il ruggito (sotto la Palma) della Tigre del Tamil

I migranti sbarcano anche al cinema: in una babele di idiomi e sentimenti, cercando di capire una realtà che non gli appartiene, in disperata fuga da una guerra che li vuole morti per ritrovarsi nel bel mezzo di un'altra, non meno assurda, non meno pericolosa. E' un cinema che non si sottrae alle domande scomode di un presente mai così controverso, quello di Jacques Audiard, il regista francese de «Il profeta» e «Un sapore di ruggine e ossa» che con «Dheepan», emblematica storia di immigrazione e violenza, ha vinto la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes.
La storia di un miliziano dello Sri Lanka, arruolato nelle Tigri della liberazione del Tamil, che, persa la sua famiglia nella guerra civile, decide di lasciare il Paese: per farlo però deve portare con sè una donna e una bambina che dovranno fingere di essere sua moglie e sua figlia. Trovato rifugio in Francia, i 3 vengono però spediti in quartiere-ghetto controllato dalla criminalità locale...
Nella Scampia parigina, il dramma degli immigrati privati anche dell'identità, stranieri a tutto (senso dell'umorismo compreso...) che sognano 500 euro al mese e provano, come possono, a fare tacere i fantasmi del passato. Con il solito occhio attento (e partecipe) su un'umanità marginale, nella comprensione non facile delle ragioni di tutti - immigrati, delinquenti, losers -, Audiard, evitate le trappole del cinema politico, denuncia, senza bisogno di fare proclami, l'assenza endemica e sconcertante dello Stato (in questo caso la Francia) e della legalità nel «caso migranti», parcheggiati in una terra di nessuno, nuova giungla (stavolta metropolitana) dove la pace che cercano non può che restare una chimera. Interessante quando mostra i tentativi di integrazione dei suoi protagonisti (vittime di un pesante choc culturale) e la loro risposta davanti a una libertà agognata ma in effetti effimera, «Dheepan» convince in particolare nei momenti in cui segue da più da vicino l'evoluzione nel rapporto dei tre fuggitivi (di ognuno dei quali il regista rispetta il punto di vista), estranei chiamati a scoprirsi famiglia, stranieri l'uno all'altro eppure uniti in una nuova lotta. 
A dare verità alla pellicola, solida nel suo oscillare tra melò e dramma sociale (con escursioni nel thriller suburbano), è, infine, anche la scelta del protagonista (il Dheepan del titolo), lo scrittore in esilio Jusuthasan Anthonythasan, soldato bambino nelle Tigri di Tamil da quando aveva 6 anni fino all'età di 19. 
Poi certo, si potrà forse obiettare che questo non è il miglior film di Audiard, altrove più appassionante, meno schematico: è vero, non c'è dubbio. Ma forse ad ammetterlo gli facciamo solo un favore: perché dimostrarsi anche molto più bravi di così significa essere grandi davvero.

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