I film più belli del 2024: la mia top ten
Con grande ritardo, ma pur sempre presente: ecco la mia top ten dei migliori film del 2024
La zona d’interesse
Un film che è un rumore, un suono. Instancabile, disturbante. Come un tarlo che divora la coscienza. I vicini di casa dell’orrore: un’idea potentissima, realizzata con audacia da un regista di culto prima ancora di esserlo per davvero.
Povere creature!
L’emancipazione della donna? E’ un film dell’orrore. Un film immaginifico e geniale sulla scoperta di sé (e del mondo), un bizzarro e grottesco viaggio iniziatico ai confini del libero arbitrio. E chi non vorrebbe ballare con Emma Stone?
Perfect days
L’amico ritrovato: sul podio perché Wenders credevamo di averlo perduto. E perché in anni di dittatura tecnologica e avido carrierismo, l’eroe analogico, empatico e ripetitivo della moderna Tokyo è una lezione di saggezza.
Green border
Alla frontiera dell'umanità, sul confine esausto che separa il male dal male, una regista di 74 anni recita il de profundis della società civile. Ma senza darla per persa: cercando anzi, nonostante tutto, bagliori di partecipazione.
Flow
Il miglior film d’animazione dell’anno mette l’uomo fuori dall’inquadratura e lascia che gli animali (era ora) facciano gli animali: per spiegare senza una parola anche ai bipedi spettatori che siamo tutti sulla stessa barca. E sarà meglio darsi una mano.
Past lives
Un film languido, ma in modo tenero, suadente, «intrecciato»: l’opera prima di una spatriata che dà un nome (e una forma) a quell’eterno riconoscersi che non sempre vuol dire raggiungersi. E a volte significa solo rimpiangersi.
Alle we imagine as light
Un film ipnotico e universale: un punto di vista femminile sull’India degli amori impossibili e dei matrimoni combinati. ma più di tutto uno sguardo tenero sulla solitudine contemporanea. Grand Prix a Cannes, dove avrebbe meritato di vincere.
La stanza accanto
La morte di una donna e quella del mondo: ma anche la paura - umana troppo umana - di ritrovarsi da soli quando verrà il momento. Intimo, toccante, elegantissimo: più dolor che gloria in questa strenua difesa del libero arbitrio.
L’innocenza
Sottovalutato e buttato via, è un vero e proprio gioiello da recuperare: nell’immenso inganno delle apparenze, Kore-eda smonta uno a uno i nostri pregiudizi con un film-matrioska raccontato attraverso tre punti di vista differenti.
Parthenope e Vermiglio
L’antitesi, è vero. Però, in modo opposto, ci hanno legato, inseguito, interrogato: e ci hanno costretto a parlare - tanto - di loro. Le tecniche di seduzione di Sorrentino, il rigore alla Olmi della Delprato. Come di fa a non volere bene a entrambi?
Anselm, l'arte e l'artificio
L’arte e l’artificio: negli sconfinati atelier che diventano set, teatri di posa, l’immagine moltiplica se stessa. Cerca e si fonde continuamente in un altro punto di vista, come una matrioska di idee dove il video dialoga e si mescola con la fotografia, la ricostruzione con la testimonianza, l’elaborazione con il reperto “storico”. Forse perché anche il cinema altro non è che un caos delimitato, recintato nei quattro angoli di uno schermo: contenuto e “costretto” a fatica, abbastanza per diventare, agli occhi nostri, agli occhi di tutti, dipinto, opera, soluzione.
Nato come lui nella Germania anno zero, quella, devastata, del ‘45, la generazione post inferno che, cercando un altrove, si caricò sulle spalle lo stigma di colpe altrui e il tormento di fantasmi comuni, Wim Wenders coglie l’essenza, sconfinata e spregiudicata, del coetaneo Anselm Kiefer, gigante dell’arte contemporanea che ammira e in cui si riconosce (anche in questo caso, immagine dentro l’immagine...) da sempre. Un’affinità elettiva che il regista tedesco restituisce nella profondità di un (ri)tratto non didascalico e nemmeno agiografico, istantanea di un uomo che, conservata dentro di sé la meraviglia del bambino che è stato, è in perenne e costante cammino, non in fuga eppure per sempre “bandito”.
L’arte, la mitologia, la riflessione sulla memoria e sulla Storia: attraverso tre età, in un non banale processo di identificazione (Kiefer bambino è interpretato dal nipote del regista, Kiefer giovane dal figlio dell’artista, mentre il Kiefer di oggi è naturalmente se stesso), Wenders, tornato in auge anche nel cinema di fiction grazie al grande e recente successo di «Perfect days», gira un documentario affascinante che, nel corso del tempo, ricostruisce, come un’enorme installazione, il talento multiforme di un artista coraggioso e provocatore (la serie di foto col saluto nazista per protestare contro l’oblio...), accusato ingiustamente in passato di essere un reazionario e invece capace di concepire una libreria dove conservare la “pelle” del mondo.
L’autore raffinato di doc come «Pina» e «Il sale della terra» (con Salgado) in «Anselm» (anche in versione 3 D) mette mano alle foto d’epoca, ripropone interviste in vecchi televisori, usa la materia, la manipola e ne fa altro: così, l’interpretazione dell’epica artistica di un visionario diventa arte a sua volta. Là dove l’essere è parte fondamentale del nulla. E - come Kiefer insegna - viceversa.
Adesso è adesso: i Perfect days di Wenders
Ascolta musica americana nelle vecchie cassette, usa ancora una macchina fotografica col rullino, legge libri che compra in edizione economica, va in bicicletta, non ha la tv né la lavatrice e fa sogni in bianco e nero. E nonostante tutto trova modo e tempo di accennare un sorriso, anche quando magari gli scappa la lacrimuccia. E' analogico e vintage, con quel 4/3 che racchiude nello schermo un piccolo mondo, l'ultimo, poetico, film di Wim Wenders, bella sorpresa, perché inaspettata e imprevista, di un amico ritrovato, cineasta mito dai '70 ai '90, poi, a parte alcuni bellissimi documentari, smarrito al grande cinema.
Che invece qui, tornato in Giappone a quasi 40 anni da «Tokyo Ga», in una città che lo affascina da sempre, schiaccia play ogni mattina all’alba su «The House of the Rising Sun» degli Animals per raccontare i «Perfect days» di un meraviglioso antieroe, un addetto alle pulizie dei bagni pubblici. La sveglia all'alba, il lavoro umile svolto senza mai lamentarsi, la pausa pranzo al parco, il bar. Un uomo solo, ma non disperato, attento ai dettagli, alle piccole cose e allergico ai grandi discorsi. Tanto che Wenders, tra Lou Reed e Janis Joplin, spende più canzoni che parole (il primo dialogo è dopo 12 minuti), trovando sin da subito però la cifra e la delicatezza giusta, giocando tutto sulle lievi increspature di una routine solo apparentemente banale, fessure e crepe dove si fa largo la luce, in un lento svelamento del suo protagonista, interpretato dallo strepitoso Kôji Yakusho, Palma d'oro per il miglior attore all'ultimo Festival di Cannes.
Un film gentile, «Perfect days», zavattiniano, con tocchi alla Jarmusch e alla Kaurismaki, tenero e malinconico. Un piccolo grande film sull'essenziale: un'ode alla semplicità, ma anche alla grande dignità di chi, tagliati i ponti col passato, continua a guardare un presente che cerca di rendere più pulito, più lindo (e più vero) con innocente ottimismo. Forse perché sa che «adesso è adesso».