Pinocchio, Garrone nel paese delle meraviglie
C'è un senso del meraviglioso, un incanto palese eppure segreto, in quella picaresca e tenera concezione del fantastico, nella trasfigurazione del reale, di qualcosa di antico e materico, che non ha che fare tanto con la tecnologia (e gli effetti speciali), ma ci appartiene, anche figurativamente. E sì, c'è qualcosa di profondamente umano anche laddove si pensa di non potere provare dolore in questa favola cigolante che Matteo Garrone rilegge con riconoscente fedeltà accarezzando la fisicità dell'immaginifico, regista artigiano che lavora il cinema come fosse legno e lo modella, lo piega, lo intarsia. Facendone un pezzo unico, poi per sempre riconoscibile, personale, proprio (e appropriato).
Ne poteva rimanere prigioniero, anche lui nel ventre della balena (pardon, pescecane), perduto per sempre in quell'oceano di pagine difficilmente navigabili: e invece l'autore di <Dogman> sfida la maledizione di <Pinocchio> (che travolse anche Benigni, qui ora magnifico Geppetto per il quale la vita è di nuovo bella) girando un film visivamente splendido (e produttivamente <estremo> nel panorama italiano)celebrando con forza estetica il capolavoro di Collodi di cui Garrone coglie e leviga l'aspetto adulto senza per questo sacrificarne lo stupore, la magia, il comune senso del rocambolesco. In un Paese (questo) dove <gli innocenti vanno in prigione> e si fa la fame sperando prima o poi di mettere giudizio, l'avventura di diventare grandi va di pari passo alla scoperta della crudeltà della vita: tocca tornare bambini (o diventarlo, finalmente) per giudicare con la dovuta serenità un'umanità affollata di burattini di cui qualcun altro tira i fili, di teste di legno, di marionette costrette sulla scena, vittime dell'ennesima recita.
Il commovente (e smisurato) affetto paterno, il romanzo (etico) di formazione, l'immaginazione come antidoto alla miseria: le chiavi ci sono tutte, più che altro occorre capire (ma già gli incassi di questo weekend dovrebbero chiarire le idee) quale sia (e da chi sia composto) il pubblico del <Pinocchio> di Garrone, un film che può piacere a tutti (grandi e piccoli) e per le stesse ragioni a pochi. Una fiaba d'autore che nell'affrontare con puntualità filologica il testo rispolvera passaggi ignorati dalle precedenti versioni, facendosi forte (nonostante nella seconda parte il film fatichi di più) di una realizzazione di grande riuscita, di grande spessore, a cui porta un serio contributo un cast molto variegato (oltre a Benigni, tra gli altri, anche un Proietti-Mangiafuoco, cattivo solo in apparenza ma assai facile alla commozione, la francese Marine Vacht – già giovane musa di Ozon -, un ottimo Massimo Ceccherini, Volpe in cerca di qualcosa <da spizzicare> insieme al Gatto Papaleo) che gira intorno al giovanissimo Federico Ielapi, il burattino dagli occhi da bambino che per tre mesi si è sottoposto a quattro ore di trucco (più una per struccarsi) tutti i giorni. E se Garrone non sbaglia una faccia, fantastico davvero è il lavoro di make up dell'inglese Mark Coulier, due Oscar in bacheca (per <Grand Budapest Hotel> e <The Iron Lady>) e parecchio da fare anche sui set di <Harry Potter> e del <Suspiria> di Guadagnino: tecnico di fama mondiale che, unitamente al costumista Massimo Cantini Parrini (ospite lo scorso mese del Parma Film Festival), ricrea un mondo dove potere entrare è un privilegio.