L'odissea dei profughi al confine dell'umanità
«Nessuno ha fatto niente».
Alla frontiera dell'umanità, sul confine esausto che separa il male dal male, una regista di 74 anni, Agnieszka Holland, recita l'epitaffio della società «civile» senza però arrendersi all'indifferenza, senza darla per persa, senza nascondere la testa sotto la sabbia. Ma tentando, con ostinazione, di trovare ancora, nonostante tutto, nonostante il mondo, bagliori di solidarietà dove l'anima è più buia, fuochi non fatui e tracce visibili di coscienza, di partecipazione.
E' un film rigoroso e dolente, crudo e molto duro, vincitore tra le altre cose del Premio speciale della giuria all'ultima Mostra del cinema di Venezia, «Green border», che morde l'attualità fino a farla sanguinare nel porre questioni urgenti, importanti e a volte insolvibili per raccontare (come anche, in forma di documentario, il «Mur» di Kasia Smutniak) l'odissea quasi sempre senza lieto fine dei profughi, il loro dramma devastante e inascoltato, un incubo che diventa in alcuni casi anche il nostro.
Per farlo la regista di Varsavia piazza la cinepresa sul confine tra la Bielorussia del dittatore Lukashenko, zerbino di Putin, e la Polonia in mano all'estrema destra: che respinge brutalmente chiunque chieda asilo e rifugio...
In un bianco e nero senza scuse, un cinema privo di passaporto che sa ancora sporcarsi le mani. E dà voce a tutti: chi scappa dalla guerra o dalla fame, le guardie di frontiera prive di pietà, gli attivisti. E chi, semplicemente, decide che non può più restare con le mani in mano.
Un atto d'accusa, «Green border», che non ammette repliche e, tra propaganda e sofferenza, guarda negli occhi il fallimento della politica Ue dell'accoglienza, ribadendo d'altro canto la necessità di mettersi in gioco. Che vale per tutti, artisti compresi: come dimostra questo film indignato, che assiste non inerme alle sfide del suo tempo.
Prima della guerra: la mia Ucraina, le scale di Odessa, Ejzenštejn e la sposa
Io me la ricordo deserta, come una domenica d'agosto, anche se era un altro giorno e forse anche un'altra stagione. Poche auto, un taxi che sembrava uscito da un film in bianco e nero, rari, invisibili, negozi. E poi, a squarciare quel velo di silenzio quasi irreale, l'improvviso, allegro, «rivoluzionario», vociare di un matrimonio. Come una sospensione del tempo (perduto?), una crepa, profonda, dell'istante: un serpentone entusiasta seguiva la ragazza con il vestito bianco. E il suo sorriso: così aperto, felice e sincero da riportare anche il sole. Ecco, di Odessa, davanti a quella scalinata così famosa che porta al mare e da dove ora, in queste gelide notti di paura, quando il cielo è limpido, puoi vedere balenare nel buio le luci delle fregate e degli incrociatori dello zar Putin, io mi ricordo soprattutto questo: il sorriso della sposa. Non so che giorno fosse, ma era sicuramente un'altra epoca: il muro era ancora in piedi, la guerra era «solo» fredda e non c'era né Russia né Ucraina, ma la potente, soffocante, Unione sovietica. E le interpreti si litigavano ancora le riviste di moda che laggiù non arrivavano mai: forse perché, su quella costosa carta patinata, dimostravano, in qualche modo, che un altro mondo era possibile. Sugli scalcinati pullman che trasportavano i turisti gli autisti attaccavano adesivi di benvenuto: «No Nato», c'era scritto. Farebbe sorridere, se la situazione non fosse invece drammatica, pensare che forse è cambiato tutto perché tutto rimanesse uguale. La grande madre Russia, che a tutto pensa e tutto muove, è spaventata dalla svolta europeista dell'Ucraina, dalle sue simpatie per la Nato e dal costante avvicinamento verso l'alleanza atlantica. Brucia ancora – e da ormai trent'anni – la fuga dell'Ucraina verso la libertà, l'indipendenza orgogliosamente ottenuta mentre l'Urss si sgretolava in tanti piccoli pezzi. Una ferita non rimarginata su cui gli ucraini hanno gettato sale cacciando nel 2014 l'allora presidente Yanukovich, filo russo, evidentemente pure troppo. E allora ecco l'annessione della Crimea da parte di Putin, ecco la rivolta dei separatisti filo-russi nel Donbass: schiaffi per riportare Kiev e (ex) compagni alla ragione. Bella, corrotta e preoccupata l'Ucraina: il granaio d'Europa, ora centrale anche per la grande partita (che molto interessa anche l'Europa) del gas. Come una donna contesa tra due uomini sul confine rovente della Storia: il vecchio amante che minaccia di venirsela a riprendere con la forza, quello nuovo che l'attende a braccia aperte. Nel mezzo, la possibilità di una guerra lampo dalle conseguenze incalcolabili. O forse solo un bluff perché tutto resti così com'è. Intanto Mosca richiama alla base alcune forze militari sul confine. Un primo segnale di distensione? Chissà. Ma intanto, a Odessa, si preparano: dei russi non si fidano da secoli. L'attacco, dicono, potrebbe arrivare da qui, dal mare. Proprio sulla porta dell'Europa, in quella meraviglia sul Mar Nero. Magari su quella stessa scalinata di 192 gradini su cui è già stata fatta la storia: ma quella del cinema. Era il 1925, quasi un secolo fa: l’Unione Sovietica voleva festeggiare il ventennale della sua prima rivoluzione. Cosa meglio di un grande film di propaganda? Chiamarono un ragazzo di 27 anni, un visionario dai capelli sparati in aria: il suo nome era Sergej Ejzenštejn. Lui, uno dei più grandi pionieri della settima arte, capace di influenzare per sempre il linguaggio filmico, avrebbe dovuto girare a Odessa solo poche scene. Ma rimase folgorato da quella scalinata progettata (anche) da un architetto italiano, Francesco Boffo. E in un attimo decise che la forza simbolica avrebbe superato anche la verità storica. Vero infatti che la rivolta del 1905 venne soffocata nel sangue dai cosacchi dello zar: meno, pare, che il sangue venne versato proprio su quelle scale. Dove invece il giovane cineasta russo ambientò quella che di certo è la più famosa sequenza della storia del cinema: il massacro de «La corazzata Potëmkin». Le riprese durate una settimana, la carrozzina lasciata precipitare dalla madre colpita a morte, la pellicola tenuta insieme dalla saliva, incollata in qualche modo pochi minuti prima della prima: difficile dire dove finisca il cinema e cominci la leggenda. Quella di un film reso immortale anche da una celebre battuta di Villaggio/Fantozzi e dall'omaggio riverente di De Palma ne «Gli intoccabili». Poco importa: sulla scalinata di Odessa - la Gradinata Richelieu ora ribattezzata Potëmkin-, la stessa da dove, adolescente, ho guardato il mare, ora attendono, di nuovo, la vendetta dei cosacchi. Aspettano di girare un altro film, di cui nessuno però conosce il finale. E mentre le luci delle navi da guerra squarciano il buio all'orizzonte, io penso a quella sposa, a che fine abbia fatto: e se ancora trovi la forza di sorridere.
Summer, la lunga estate del rock sovietico
C'era solo il nome a Cannes su un cartello: lui no, era rimasto a casa. Ai domiciliari, per l'esattezza: accusato di appropriazione indebita. Anche se sono molti a pensare che è solo una delle tante vittime della vendetta di Putin, lo zar della nuova Russia. A cui i suoi spettacoli teatrali e i suoi film sono sempre andati di traverso. E allora, il 49enne Kirill Serebrennikov per farsi sentire alza il volume: la sua banda suona il rock, per chi l'ha visto e per chi non c'era. E' la musica ribelle a incendiare lo schermo: con <Summer> che rievoca (e celebra) la scena musicale russa pre Perestroika, quando gruppi come i Kino e gli Zoopark diedero la scossa, nei primi anni '80, a una generazione senza speranza.
Girato in un bellissimo bianco e nero che ricorda quello del film di Corbjin sui Joy Division, interrotto solo da qualche inserto a colori di finto documentario, <Summer> è un film giovane, vitale e pieno di energia che si concentra in particolare sull'ideale - ma inevitabile - passaggio di consegne tra il re del blues-rock di Leningrado Mike Naumenko, l'idolo del presente che già sa di essere il passato, e Viktor Tsoi, che da lì a poco diventerà uno dei più influenti pionieri del rock russo. Punk per scelta e per vocazione, <Summer> - solo stasera (lunedì 17) all’Edison - però non si accontenta di seguire la strada del biopic e mescola con creatività le carte, affidandosi alle improvvisate di uno spiazzante e (in)visibile narratore come, soprattutto, a numeri da musical dove disegnare sulle immagini scritte e segni grafici che ricordano (tra split screen e animazioni) il mood dei primi videoclip. E' una cifra che Serebrennikov usa anche in senso ironico (come quando i passeggeri del bus si mettono a cantare <The passenger> di Iggy Pop), una fuga onirica in un periodo dove in Urss si rischiava di essere sbattuti giù da un treno solo perché ti piacevano i Sex Pistols... E' vero, il suo film ha qualche minuto di troppo e meritava maggiore approfondimento delle personalità dei protagonisti (attratti dalla stessa donna), ma oltre al merito di fare riscoprire al di qua del muro il rock sovietico di quel periodo è metafora chiara di un desiderio, di una voglia di libertà di espressione che c'era allora come adesso.