Tre volti: in viaggio con Panahi sulla strada della libertà
Ripercorre le strade tortuose del suo maestro Kiarostami, tra villaggi dove ci sono <più antenne paraboliche che abitanti> (e neanche un medico...), Jafar Panahi, il dissidente regista iraniano a cui Teheran vieta ancora (vergogna) l'espatrio: portando se stesso all'interno dell'inquadratura per riflettere dapprima sulla verità delle immagini, sulla possibilità di manipolarle (e, in definitiva, sul cinema, compromesso tacito tra imbroglio e realtà) per poi denunciare la condizione femminile in un Paese ostaggio della sua arretratezza anche culturale, dove <studiare non serve> e gli artisti vengono considerati alla stregua di inutili saltimbanchi. Un riuscito, ispirato, docu-fiction politico <Tre volti>, in cui il regista si mette in gioco insieme all'attrice (anche lei nella parte di se stessa) Behnaz Jafari, andando alla ricerca (un po' come in <Dov'è la casa del mio amico>: ma c'è qualcosa anche di <Sotto gli ulivi>) di una ragazza che gli ha inviato il video del suo suicidio. Ma si è davvero uccisa? O è solo una messinscena, un estremo grido d'aiuto? Viaggio nell'Iran più periferico e marginale (che, anacronistico e legato alle tradizioni, colpisce però anche per dignità e gentilezza), ricco anche di spigolature e spunti ironici (come nell'incontro con la vecchina al cimitero che dorme prima nel tempo nella sua fossa o la telefonata del regista con la madre, ansiosa come tutte le mamme del mondo), <Tre volti> (premio per la miglior sceneggiatura – ex aequo con <Lazzaro felice> - a Cannes) è un on the road per buona parte girato (come <Taxi Teheran>) all'interno di un'auto (uno dei pochi luoghi dove il regista, perseguitato dal regime, si sente al sicuro...) in cui il virtuoso e poetico minimalismo di Panahi corre in aiuto - sulle strade accidentate dove il potere non arriva - della libertà di espressione e di scelta.