2021, 2022, Recensione Filiberto Molossi 2021, 2022, Recensione Filiberto Molossi

Il capo perfetto, la bilancia pende sempre dalla parte sbagliata

Sono passati vent'anni da quando Fernando Leon de Aranoa realizzò «I lunedì al sole», film-caso assai riuscito dove raccontava il quotidiano di un gruppo di neo disoccupati. Adesso, in uno sprazzo d'epoca ancora più complesso, il regista spagnolo passa dall'altra parte della barricata, girando l'ideale controcampo di quella pellicola, seguendo le vicende (e le vicissitudini) di un capitano d'impresa, o meglio di un «Capo perfetto». Demolendo, con cinismo e ironia, l'ultima grande bugia del mondo del lavoro: il mito della «grande famiglia» («sono tutti figli miei», si vanta l'imprenditore: certo, quelli con la pelle un po' più scura - chiarisce -, «adottivi»...), del paternalismo d'affari, del «siamo tutti sulla stessa barca». Di un'azienda spacciata al di fuori come un modello di efficacia ed equità, quando invece il presunto punto di equilibrio tra interesse personale e benessere collettivo è stravolto da una logica immorale e violenta che fa a pezzi il fragile paravento del «se voi siete felici io sono felice», mantra illusorio a cui non crede più nessuno, per primo chi lo predica. Commedia nera, anche amara, «Il capo perfetto», scelto dalla Spagna per rappresentarla agli Oscar (preferendolo non senza polemiche all'ultimo Almodovar) e candidato ad addirittura 20 premi Goya (l'equivalente dei nostri David), mette al centro dello schermo il signor Blanco, rispettato (più che rispettabile) titolare di un'azienda di bilance che, paradossalmente ma non troppo, è destinato a perdere improvvisamente l'equilibrio. E così, tra il cercare di ricomporre la crisi coniugale di un dipendente di lungo corso e l'aiuto offerto a un operaio col figlio «guasto», la sua spericolata passione per le stagiste e un lavoratore che non accetta il licenziamento rischiano di comprometterne l'immagine proprio nei giorni in cui una commissione potrebbe assegnare alla Blanco Básculas l'importante premio di un concorso pubblico. Meno spietato di Loach e Brizè, de Aranoa coglie durante una settimana lavorativa (da lunedì a lunedì) la personalità ipocrita e falso magnanima di un nuovo mostro (per dirla alla commedia all'italiana) spingendo, in un crescendo narrativo, sino alle estreme conseguenze la metafora di una giustizia bendata, cieca. Forse un po' sopravvalutato (è abbastanza prevedibile e non così brillante come da premesse), «Il capo perfetto» trova però in Javier Bardem un interprete di sfrontata efficacia: imprenditore sull'orlo di una crisi di nervi, carnefice senza scrupoli costretto ad abbozzare quando gli tocca la parte della vittima. Un cattivo che sa fare pendere la bilancia sempre solo da una parte: la sua.

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2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Una vita: ritratto di una donna condannata alla sensibilità

C'è la crudeltà di un'esistenza sempre al di sotto dei propri sogni, che è qualcosa che appartiene all'umano, che travalica i secoli: e va al di là di un matrimonio banalmente infelice, ma ha che fare piuttosto con un destino che sferza le nostre aspirazioni, che si arroga il diritto di veto davanti alla nostra voglia di credere, di sperare, di illuderci. C'è questo sentimento, la delusione di una promessa mancata, un torto che prevale sulla ragione, nell'attento, prezioso, ritratto di signora che il francese Stéphane Brizé traccia con bella calligrafia in <Una vita>, costringendo l'immagine nel vecchio 4/3 per soffocare la libertà di una donna condannata alla sensibilità: la stessa che esce dalle pagine impolverate del primo Maupassant (e delle sue <tranches de vie>) per indossare l'abito di un melodramma solo apparentemente classico.

Storia di una moglie e di una madre tradita nella Normandia della prima metà dell'800, <Una vita>, presentato all'ultima Mostra di Venezia (dove vinse il premio Fipresci), nell'impossibilità conclamata di un amore che si rivela troppo spesso a senso unico tesse la parabola, colma di disillusione e amarezza, di un'aristocratica (Judith Chemla, molto brava) costretta a scoprire, in un mondo regolato dalla menzogna, il carattere effimero della felicità.

Un percorso tragico (ma non solo), condiviso con ispirato minimalismo da un autore che, fotografata con scarno rigore la contemporaneità ne <La legge del mercato>, sale ora sulla macchina del tempo per riprodurre affetti speciali e stagioni emotive che non hanno scadenza. E alla fine va ben al di là di una confezione con tutti i crismi, grazie a una costruzione per ellissi molto efficace, che conosce strappi notevoli e momenti di passione non artificiosa.

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2015, Recensione Filiberto Molossi 2015, Recensione Filiberto Molossi

Il lavoro logora anche chi ce l'ha: è La legge del mercato

Chi lavora è perduto: il posto fisso? Logora anche chi ce l'ha. E, stretta al collo la cravatta, è costretto a trasformarsi nell'involontario kapò di un'epoca precaria e orrenda, tormentato persecutore di chi conosce (e vive) la sua stessa miseria. Ladri di buoni sconto ma anche di speranze nell'amaro «La legge del mercato», gran bel film, freddo ma inesorabile, sulla vita al tempo della crisi con cui il francese Stéphane Brizé denuncia la brutalità (a volte paradossale) dei meccanismi del mondo del lavoro. Girato in appena 21 giorni, con un piccolo budget e un taglio alla Dardenne, il film, dove attori veri recitano accanto a non professionisti, si muove nella zona franca del cinema politico e sociale (quello «ad altezza d'uomo») per raccontare, in modo asciutto, il dramma di Thierry, disoccupato 51enne in cerca di lavoro.
La cassiera che aggiunge di nascosto i punti a chi non ne ha abbastanza, il pensionato che si mette in tasca la bistecca, l'impiegata che fa la cresta sui coupon: e poi le banche e i loro prestiti usurai, i colloqui di lavoro su skype, le valutazioni umilianti (cerchi un impiego? Meglio se ti agganci l'ultimo bottone della camicia...) a cui è sottoposto chi cerca, faticosamente, di rimettersi in gioco. Scarno e senza fronzoli, «La legge del mercato» fa largo uso del piano sequenza e della macchina a mano rinunciando quasi completamente alla musica per stabilire con chi guarda un'empatia priva di trucchi, dove la verità emerga anche nel suo lato più tragicomico e meschino. Brizé mette in scena una guerra tra poveri auspicando un risveglio etico, per poi cucire addosso il film a un meraviglioso Vincent Lindon (miglior attore del Festival di Cannes) che coglie anche con un silenzio l'imbarazzo e lo sdegno per il peggiore dei mondi possibili.

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