2025, Oscar, Recensione Filiberto Molossi 2025, Oscar, Recensione Filiberto Molossi

A Real Pain, una strana coppia nel tour del dolore

Per molti, se non per tutti, è il tizio che ha impersonato l'inventore di Facebook Mark Zuckerberg in uno dei film più belli degli ultimi 15 anni, «The Social Network». Ma è stato anche Lex Luthor e uno dei maghi della serie (il terzo film è in arrivo) di «Now you see me». Con quella faccia un po' così da eterno ragazzino (anche se ormai sono 42), timido controvoglia, Jesse Eisenberg prende per mano la sua opera seconda da regista e l'accompagna in un on the road «sentimentale» in cerca delle radici (le proprie, prima di tutto) e della necessaria ma ormai sbiadita umanità (laddove le tragedie sono sempre più tradotte in numeri e i luoghi dell'Olocausto sono meta di di viaggi organizzati) del dolore. Che per essere affrontato e - magari, un giorno - superato può essere solo vero, concreto, reale.

Stile indie (non a caso il lungo e glorioso viaggio del film è partito dal Sundance) e contrappunto targato Chopin, «A Real Pain» è una commedia drammatica teneramente depressa (d'altra parte, «non si può essere sempre felici»...) che gioca se vuoi in modo ovvio ma con grande delicatezza ed empatia sui meccanismi della strana coppia. Qui rappresentata da due cugini americani, che volano in Polonia per vedere la casa della nonna ebrea, sopravvissuta alla Shoah e morta di recente: uno, David, è impacciato, perennemente preoccupato, regolare, quadrato; l'altro, Benji, è solo, casinista, irrisolto, a volte imbarazzante. Uno ha un buon lavoro e una moglie e un figlio che lo aspettano a casa: l'altro trascorre il suo tempo negli aeroporti perché «c'è un sacco di gente interessante». Ma per quanto il primo sia quello serio, il secondo riesce sempre, in qualche modo, a farlo sembrare (o sentire) inadeguato. Come fratelli: costretti a confrontarsi sul proprio legame in un tour sul dolore: quello della memoria e quello, contemporaneo, presente, che ti spacca, ti lacera, dentro.

Intelligente e angosciato (ma sempre con una certa leggerezza, e con pudore), intimo e umanista, il film dà la possibilità a Eisenberg di lavorare di cesello sull'autobiografismo (la casa della nonna del film è la casa reale della sua famiglia), dimostrando cura e vero interesse nel sondare rapporti, legami ed emozioni che racconta in modo mai plateale né esibito, anche nei momenti più accesi. Ma il plus del film sono ovviamente gli interpreti: lo stesso Eisenberg, nei panni di un personaggio, David, perennemente fuori dalla zona di comfort, e un bravissimo Kieran Culkin (il fratello che ce l'ha fatta del bimbo che perdeva l'aereo...), che dopo «Succession» e due Golden Globes può legittimamente aspirare all'Oscar (il film è candidato anche per la miglior sceneggiatura): dando forma sullo schermo, sempre in bilico tra euforia e disagio, a una fragilità che forse gli appartiene.

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Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi

The Apprentice, il patto col diavolo del giovane Trump

Regola numero 1: «Attaccare, attaccare, attaccare». Regola numero 2: «Negare tutto». Regola numero 3: «Non ammettere mai la sconfitta». Prendete nota: perché è un attimo che partite nessuno e vi ritrovate (ex: ma per quanto?) presidente degli Stati Uniti...

Ritratto (senza sconti) del tycoon da giovane: l'apprendista stregone goffo e piacione incapace di reggere l'alcol, ma in grado di stuprare la moglie. Prima, molto prima, di provare a fottere anche il suo Paese.

Ha provato a boicottarlo in tutti i modi (e forse in parte è riuscito nell'intento) Donald Trump «The Apprentice», il film dell'iraniano (naturalizzato danese) Ali Abbasi che racconta l'origine della sua fortuna: figlia non tanto un colpo di genio, ma di un patto col diavolo. Quello con l'avvocato Roy Cohn, «cattivo maestro» di spudorato cinismo, avvocato potentissimo e temuto, specialista in ricatti e corruzione, che diventa il mentore di quel ragazzone ambizioso della Big Apple degli anni '70, tra febbre del sabato sera e speculazioni edilizie, taxi gialli e affari sporchi. Mentre già qualcuno vaneggiava di «America first» e i nuovi potenti dividevano le persone in due tipi: «I killer e i perdenti».

Ne viene fuori una fotografia impietosa che coglie l'evoluzione del giovane Trump, allievo capace di superare il maestro, prima solo sfrontato poi decisamente crudele: un uomo innamorato del successo e di se stesso, privo di scrupoli, spudorato, irriconoscente. Niente forse che non si sapesse già (ma gli aspetti più privati, come la morte del fratello, macchiano in maniera ancora più sinistra la coscienza dell'ex presidente), eppure, anche se tradizionale e stilisticamente non particolarmente sotile, «The Apprentice» (che ruba efficacemente il titolo dal talent televisivo condotto da Trump dal 2004 al 2017), interpretato benissimo da Sebastian Stan e (soprattutto) dal Jeremy Strong di «Succession», è un film rivelatore dell'avidità e del cannibalismo di un capitalismo malato e spietato, che mangia fino a scoppiare per poi dovere pagare per farsi tagliare (e ridurre) la pancia. Una storia (a)morale quella di Abbasi (già autore di «Border» e «Holy Spider») che certifica l'ascesa irresistibile di un uomo che ce l'ha fatta: tradendo chiunque avesse intorno. Elettori compresi.

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Pieces of a woman: provare a sopravvivere

Prove di sopravvivenza. Di (dis)umana resistenza. Comunque, e sempre, dalla parte di lei: di una donna che ride, piange, muore, combatte, risorge. E che, semplicemente, avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente. E invece le «cose» non ascoltano nessuno: nemmeno loro, le donne. È un film appassionato (a volte fin troppo, considerato che lo stile del regista è sempre molto carico), il post-traumatico «Pieces of a woman», una delle cose migliori viste l'anno scorso alla Mostra del cinema di Venezia: la storia di una giovane donna che decide di fare nascere la bimba che aspetta tra le mura di casa. Ma il parto, con un’ostetrica che non conosce, si trasforma - durante un lunghissimo (23 incedibili minuti) e soffocante piano sequenza - in tragedia. Strettissimo sui volti, doloroso e quasi tutto in interni, il primo film in lingua inglese dell’ungherese Mundruczó (vincitore nel 2014 del Certain Regard di Cannes con «White God») che Martin Scorsese ha voluto produrre a tutti i costi, è una riflessione cruda e terribile sul sopravvivere, nella desolazione di uno strazio dove non ci sono risposte, ma solo rabbia, perdita, sgomento. Ma anche ricerca di sè, resilienza, voglia, infine, di silenzio, di pace. Checoviano, nella crudeltà silenziosa dei legami tra i vari personaggi, ognuno dei quali reagisce diversamente al dramma, violento nella scrittura eppure intimista nell’impianto, la pellicola, ricercata nel taglio e nell’inquadratura (dove spesso solo uno degli interpreti è a fuoco), trova ispirazione da un'esperienza simile vissuta dalla sceneggiatrice del film, Kata Wéber (all'epoca legata sentimentalmente al regista), che ha scritto il copione trasformandolo quasi in una personalissima terapia. Affrontando così un tema tabù - la perdita di un figlio - con un punto di vista femminile, lontano dai più morbidi e sentimentalistici cliché di molto cinema hollywoodiano. Se l'idea di cinema energico, molto partecipato, di Mundruczó aveva diviso a suo tempo la platea a Venezia, già allora aveva però messo tutti d’accordo l'ottima prova degli interpreti: a partire dall'intensa, sofferente e bravissima Vanessa Kirby (la principessa Margaret della serie cult «The Crown»), premiata in Laguna con la coppa Volpi per la migliore attrice, per arrivare a Shia LaBeouf (il marito), Sarah Snook di «Succession», fino a Ellen Burstyn (la madre della protagonista), classe ‘32, indimenticabile protagonista di «Alice non abita più qui», che piazza un monologo da brividi.

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