Iddu, un puzzle chiamato Matteo Messina Denaro
Leggeva le Ecclesiaste, citava abitualmente i classici e sapeva sedurre: ma era completamente privo di senso dell'ironia e si rifiutava di vedere il figlio, riempiendo il tempo «libero» a comporre puzzle dove mancava sempre un pezzo: l'ultimo. E anche se il suo nome lo conoscevano tutti, si guardavano bene dal pronunciarlo: perché lui, nella terra dei templi e dei pizzini, era semplicemente «Iddu».
Dopo due film nitidi e riusciti, seppure di nicchia, come «Salvo» e «Sicilian ghost story», Fabio Grassadonia e Antonio Piazza fanno il grande salto nel cinema «mainstream» senza perdere la voce, nitida e originale, degli autori che sono sempre stati, imprigionando sullo schermo - con una gran bella intuizione di scrittura - l'ex nemico pubblico numero uno, Matteo Messina Denaro.
Liberamente ispirato alla corrispondenza tra il re di Cosa Nostra e l'ex sindaco di Castelvetrano (di dominio pubblico grazie al libro «Lettere a Svetonio»), «Iddu» è una commedia nera - dove la realtà «non è la destinazione ma la partenza» - che nel ridicolo trova la forza per rendere più credibile e feroce il tragico, raccontando l'incontro a distanza tra due uomini soli: il boss dei boss, costretto a vivere da recluso, nascosto agli occhi del mondo, temuto e riverito ma in perenne fuga (anche dai ricordi) e un vecchio amico del padre, Catello, relitto della prima repubblica, politicante disonesto e al verde reduce da sei anni di carcere a Cuneo. È proprio a quest'ultimo che si rivolgono i servizi segreti affinché li porti nel covo del capo della mafia...
Costruita con attenzione sottile alle relazioni tra i vari personaggi, fra flashback rivelatori (centrale l'intenso rapporto tra il boss e il padre, la cui morte dà in pratica inizio al film) e momenti di ordinaria latitanza, la pellicola, ambientata nella Sicilia che chiude le persiane sulla realtà mentre il parastato pesca nel torbido e lavora nell'ombra, trova in Elio Germano (Messina Denaro) e Toni Servillo (Catello) due protagonisti strepitosi.
Adagio: balordi, reduci e fantasmi. La Roma criminale di Sollima
Si regge da solo sulle gambe e tiene botta ma non fa quel passetto in più. «Adagio» dell'italiano Stefano Sollima che chiude la trilogia (iniziata con «Acab» e proseguita soprattutto con «Suburra») di Roma criminale, girando un film di reduci dove tira un po' un'aria da ultima partita, di tempi supplementari.
In una capitale-babilonia rovente, divorata dalle fiamme e dal caos, madre e matrigna sempre sull'orlo della fine del mondo, un film notturno e maledetto che segue le orme incerte di Manuel, un sedicenne ricattato da tre carabinieri corrotti: vittima sacrificale di un gioco più grande di lui, il ragazzo per salvarsi proverà a rivolgersi a due ex malavitosi, amici dell'anziano padre che ormai (ma è davvero così?) perde colpi...
Thriller sudato pieno di fantasmi e di balordi all'ultimo stadio, comparse a mano armata di una Roma, incancrenita e venduta, colta in un black out morale, «Adagio» ci mette un po' a carburare, ma poi, sulle note dei Subsonica, va in cerca (con Toni Servillo, Adriano Giannini, Valerio Mastandrea, Francesco Di Leva e un irriconoscibile Pierfrancesco Favino) di una redenzione impossibile, inseguendo tra sparatorie in stazione (bella e concitata la sequenza della resa dei conti) e cul de sac un altro giro in giostra.
Come spesso in Sollima i personaggi (antieroi declinanti sul viale del tramonto) sono più interessanti della storia e di una dimensione narrativa ma anche estetica un po' stravista: ma mentre Roma brucia c'è ancora tempo per vivere e morire.
La stranezza: se Pirandello incontra Ficarra e Picone
Che a volte ti sale la stranezza: e in un film pieno di fantasmi, magari incontri per caso - e porti i tuoi gentili omaggi - all'uomo che mise una bomba sotto il palazzo della realtà. Là dove, nel grande gioco della verità e della finzione, la vita è teatro. E viceversa, naturalmente. Parte da una felice intuizione il nuovo film di Roberto Andò, da un rovello d'autore, qualcosa che ronza nella testa e, fatalmente, mescola i piani, lasciando che l'immaginazione, mentre nella stanza dei «sospesi», i morti attendono che qualcuno li reclami, debordi e contamini un'esistenza (non) comune.
E così, per raccontare come Pirandello ebbe l'ispirazione per scrivere i «Sei personaggi in cerca d'autore», il regista parte per un viaggio, di educata ironia, nel processo creativo, tra gli spettri e i tormenti di un genio destinato a cambiare per sempre il senso del racconto, là dove «La stranezza» guarda con grande affetto al rito, sacro e insieme pagano, del teatro, trovando un'alchimia che già di per sé fa il film: quella tra Toni Servillo (Pirandello) e Ficarra e Picone (due becchini), bravissimi e usati molto bene in chiave (semi)seria da Andò; abbraccio ideale tra cinema «alto» e popolare, nella convinzione che al massimo muore l'uomo, ma l'autore no. E tantomeno i suoi personaggi.
Loro, quando tutto non è abbastanza
Un film su Berlusconi senza Berlusconi: vista così poteva essere un'idea grande, spiazzante, la capocciata di un Koulibaly a tempo (più per il cavaliere che per il regista...) quasi scaduto. Anche perché <Lui>, come lo chiamano per tutto il film (come si conviene alle divinità), e' in realtà dappertutto, in ogni discorso, in ogni azione, onnipresente (e onnisciente), anche se in realtà si palesa solo dopo un'ora buona.
Ma d'altra parte a Paolo Sorrentino stavolta preme soprattutto raccontare gli altri, <Loro>: quelli che contano. E pure quelli che non contano nulla: che lo sanno pero' quanto <e' dura la vita quando non sai fare un c.>. La corte dei miracoli di re Silvio (nella versione mimetica di un bravissimo, milaneseggiante, Servillo), rimasto temporaneamente senza trono: faccendieri partiti dal basso, mignotte, ex ministri.
Diviso in due parti (la seconda uscirà il 10 maggio), nel film con cui Sorrentino racconta il fenomeno Berlusconi c'è tutto: il sesso, la cocaina (a fiumi), il potere. E, soprattutto, un paganissimo eppure devoto culto della personalità, la cieca, aprioristica, fascinazione di un popolo per il suo <condottiero>. Quella che più fa emergere l'orrenda, luccicante, decadenza di un Paese in decomposizione, marcio nel midollo e nelle budella: non più spiaggiato come un mostro marino ai tempi di una vita ancora <dolce>, ma destinato inevitabilmente a sbandare, a finire fuori strada con il suo carico maleodorante di rifiuti.
Il regista - che fa di Scamarcio un personaggio che ricorda Tarantini e regala un piccolo ruolo anche alla parmigianissima Benedetta Mazza - lavora benissimo sui corpi (la linea sinuosa di una schiena femminile, i tatuaggi, le maschere), la padronanza del linguaggio visivo resta potente, ma il film a livello drammaturgico ha purtroppo carenze evidenti, la metafora, che si muove tra i riti, macabri, del potere, e' meno alta e seducente rispetto a <La grande bellezza>: e anche il gusto per il paradosso (le giraffe di ieri sono diventati i rinoceronti di oggi), quello stile subito riconoscibile, rischia di diventare più che cifra, maniera. Dove <Loro> funziona piuttosto e' nella capacita' di restituire in modo preciso (ma non banale: vedi il dialogo col nipote) il potere di convincimento, di persuasione, la capacita' di manipolare l'altrui opinione (o, semplicemente, di modificare, di mistificare, il reale) che rendeva (e rende) straordinario Berlusconi. Quel sorriso stampato che si fa amarezza nella consapevolezza di avere tutto, quando <tutto non e' abbastanza>. Come nella bella chiusura sulle note di <Una domenica bestiale> di Concato, che fa sperare in una seconda parte più ricca di suggestioni, di idee, di rovesciate e colpi bassi.