Festival, Recensione, 2025 Filiberto Molossi Festival, Recensione, 2025 Filiberto Molossi

La trama fenicia: il miliardario, la suora e il disastro del capitalismo

C'è un tizio ricchissimo che ha 10 figli, 9 maschi e una femmina che vuole farsi suora e fuma la pipa, è sopravvissuto a 6 incidenti aerei e nonostante tentino invano di avvelenarlo con il brezel non perde il fiuto negli affari che ne fanno «mister 5%». Già così vi ho dato un bell'indizio: ma se vi dico che il set assomiglia a un (bellissimo) libro illustrato e che sono della partita anche una spia che ama gli insetti e gli inquilini dell'aldilà (rigorosamente in bianco e nero) è abbastanza palese che ci troviamo nell'ennesimo, stravagante e delizioso, film di Wes Anderson, «La trama fenicia». Vero che il regista americano (di recente in concorso nell’amato Festival di Cannes, nel quale è sempre ospite gradito) ripete ormai sempre all'infinito il suo schema e che il suo cinema bizzarro e analogico sembra quasi autocitarsi: ma l'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile e rassicurante, il gioco sempre godibile. E qui, oltretutto, il cantore delle famiglie più disfunzionali lascia che la satira si fonda con la denuncia politica, mentre, in fila al funerale del capitalismo, il potere riflette sull’eredità che lascia ai suoi figli: denaro e polvere, avidità e disastro. Go Wes, quindi: ma se il colpo riesce ancora è merito anche dei complici. La banda Anderson, per l’esattezza che conta gene come Benicio Del Toro, Bill Murray, Scarlett Joahnsson, Benedict Cumberbacht. E trova anche una faccia nuova: quella di Mia Threapleton, la 25enne figlia della ragazza con cui avreste voluto ballare sul Titanic. Sì, lei è Kate Winslet: e noi non siamo più dei poppanti.

Read More
2023, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2023, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Asteroid City, la quarantena di Wes Anderson

Fa il pieno di stelle e dal cielo chiama in soccorso persino gli alieni Wes Anderson a cui la depressione da pandemia ha ispirato un'originale quarantena ante-litteram: laggiù a «Asteroid City», nel più classico dei non luoghi, a metà strada tra la fantasia e il teatro, il cinema e il libro illustrato, dove, negli anni '50, un variegato gruppo di persone si ritrova bloccato per giorni a causa del rapido passaggio di un innocuo extraterrestre... Simile e solidale con alcuni dei suoi personaggi che si sentono, come lui, fuori dal mondo, l'imprevedibile regista americano, nel suo ultimo film gioca con i vari strati della finzione e della rappresentazione non rinunciando ai suoi stilemi: dalla cura figurativa (e dalla reinvenzione di un universo coloratissimo e cartonato) alla narrazione a vasi comunicanti, dal racconto corale a un'ironia buffa, tenera. Pur bellissimo «da vedere», però il film (nel film nel film), colto e divertente, è a tratti un po' noioso e conferma a tratti (ma i suoi fedelissimi non saranno d’accordo) una certa stanchezza in una delle voci più rare del cinema internazionale. Che comunque, complice anche un parterre impressionante di divi (da Tom Hanks a Scarlett Johansson), impone anche stavolta il suo tocco e non rinuncia al piacere, sottile, dell'invenzione.

Read More
2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi

The French Dispatch: il film pop-up di un regista che libera la testa

Ci sono molti aggettivi, molte parole, moltissime (morbide, colorate, lievi), per descrivere il cinema raffinato e irresistibile di Wes Anderson. Ma forse ce n'è una che le racchiude tutte: delizioso. Fiabescamente vintage, surreale, dolcemente ironico: ma più di tutto delizioso. Non sfugge alla regola nemmeno «The French Dispatch», un film che si sfoglia come una rivista, l'ultimo lavoro del regista texano sette volte candidato all'Oscar (che però - ma siete matti? - non ha mai vinto): girato con il tocco del grande illustratore, forte di un'immaginazione sempre fertilissima, è una lettera d'amore al giornalismo, capace di passare con disinvoltura estrema dal colore al bianco e nero, dai 4/3 allo schermo pieno. Divisa in vari capitoli (come le sezioni di un giornale), la pellicola, godibilissimo divertissment dai colori pastello (quel giallo senape, gli azzurri, i verdi, i rossi: chapeau), racconta di una redazione americana con base nella Francia del XX secolo la cui chiusura ormai sembra imminente... Ma nell'ufficio del caporedattore (Bill Murray, l'attore feticcio di Anderson) fa bella mostra di sè una scritta che non lascia adito a dubbi: «Non piangere». Arte moderna, il Maggio del '68, la venerazione per gli chef (qui ce n'è uno che si chiama Nescaffier...): l'autore fuori dagli schemi di «Moonrise kingdom» e «The Grand Budapest Hotel» guarda stilisticamente al suo adorato New Yorker, facendosi gioco degli stereotipi per proporre col sorriso sulle labbra i suoi elaboratissimi quadri vivant, non disdegnando nemmeno l'utilizzo del fumetto. Vera e propria gioia per gli occhi, sospesa tra la fantasiosa rivisitazione d'epoca e il gusto ingegnoso per l'inquadratura (sovraffollata di oggetti, di particolari, di persone), «The French Dispatch» è un caleidoscopico film sul mondo che (purtroppo) cambia, la nostalgia di qualcosa che non è mai esistito, pieno di idee (il detenuto che dipinge la bella guardia carceraria, la partita a scacchi a distanza tra il leader del movimento studentesco e il governo...) e ricchissimo di star (l'elenco degli amici di Wes è davvero infinito: da Benicio Del Toro a Owen Wilson, da Frances McDormand a Timothée Chalamet, da Léa Seidoux a Christoph Waltz....): si apre come un libro pop-up, libera la testa e porta beneficio anche agli sguardi affaticati.

Read More
2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Anticonformista e no global: l'on the road emotivo della bizzarra famiglia di Captain Fantastic

Abitano in una foresta, si svegliano al suono di una cornamusa, mangiano solo quello che riescono a cacciare: poi la sera leggono Nabokov o discutono di fisica quantistica. Non hanno mai visto la tv né messo un paio di scarpe da ginnastica, felicemente immuni dalla cola (<è acqua avvelenata...>) e da quella terribile terapia di gruppo chiamata shopping. Non solo: sono colti, uniti e ben allenati. In pratica, pronti a tutto. Tranne che alla realtà.

E' straordinaria davvero, in tutti i sensi, la famiglia protagonista di <Captain Fantastic>, la bizzarra, divertente, audace, anticonformista e anticapitalista commedia no global di Matt Ross (professione attore, ma gran piglio da regista) che porta sullo schermo un bravissimo Viggo Mortensen, padre (e padrone) - col culto della verità e l'allergia al sistema - di sei figli molto speciali, che non vanno a scuola ma conoscono a memoria la Costituzione e sanno argomentare con cognizione di causa di Mao e dei fratelli Karamazov. La morte della madre però li costringe a un indimenticabile viaggio nel mondo esterno: dove i loro valori si scontrano inevitabilmente con quelli altrui. E alle lezioni dei genitori si aggiungono quelle della vita.

On the road emotivo avventuroso e libertario, <Captain Fantastic> è una vibrante e singolare riflessione sociale post hippie e <happysad> che nello scontro tra civiltà sposa un punto di vista inedito per affrontare senza pregiudizi l'utopia anticonsumistica, dove il prezzo da pagare sull'altare della coerenza è quello dei sogni e di un ideale che forse (ma forse no...) è solo un <bellissimo errore>.

Intelligente e alternativa, la commedia (che ha qualcosa di <Little Miss Sunshine> e del cinema di Wes Anderson) inneggia, tra un <potere al popolo> e l'altro, alle teorie di Noam Chomsky, il geniale e anarchico linguista e filosofo, vero nume tutelare di un film fuori dal coro pieno di sorprese e contraddizioni.

Premio del pubblico alla Festa del cinema di Roma e miglior regia a <Un certain regard> al Festival di Cannes, <Captain Fantastic> non si limita solo al ritratto di una famiglia alternativa e differente, divisa tra tentazione della normalità e orgogliosa difesa delle proprie convinzioni, ma è piuttosto l'ironico racconto di un percorso (anche) metaforico che costringe tutti a rimettersi in discussione, a cambiare e ad adattarsi: per ritrovarsi una mattina intorno a un tavolo e scoprire che a volte basta poco, un nulla, la parvenza di un'attesa, un silenzio complice, per sentirsi davvero una famiglia.

Read More
2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Mistress America, sorellanza senza retorica: come fai a non volergli bene?

E' figlio di due critici ed ex marito di un'attrice famosa (Jennifer Jason Leigh) e sul set non lo sentirai mai gridare <azione!>, ma al massimo buttare lì, con educazione tutta newyorchese, un <cominciamo> o un <quando volete>... Se ancora c'è qualcuno che si domanda perché in Italia non si fanno film (apparentemente semplici e sempre efficaci) come quelli di Noah Baumbach – 46 anni, da Brooklyn, nome di punta del cinema indipendente a stelle e strisce - la ragione è presto detta: non siamo capaci. Non li sappiamo scrivere così bene, non abbiamo attrici così in gamba (o non le facciamo lavorare) e mentre lui (già stretto collaboratore di Wes Anderson) riesce con estrema facilità a rendere autentico un soggetto inventato noi di solito brilliamo nell'impresa opposta. E' anche per questo che non è difficile volere bene a un film come <Mistress America>, tra le cose migliori passate all'ultima Festa del cinema di Roma, disinvolto e scioltissimo sia a livello di scrittura che di montaggio: una commedia divertente, <smart>, intelligente, antiretorica, diretta e onesta oltre che priva di qualsiasi orpello e (facile e non) moralismo.

In una New York dove capita spesso di sentirsi soli, l'incontro, sul filo della <sorellanza>, tra Tracy, goffa e esclusa matricola del college che passeggia per il mondo come una che è a una festa dove non conosce nessuno e Brooke, trentenne vulcanica, incontenibile e soprattutto inconcludente. Non si conoscono, ma la madre dell'una e il padre dell'altra hanno deciso di sposarsi: tanto vale fare amicizia...

Scritto molto bene, con dialoghi frenetici e parole che rimbalzano come in un flipper in cui mentre si discute di una cosa si è già passati a un altro argomento (e via così), <Mistress America>, tra buffe sedute spiritiche, meeting letterari di donne incinta e ricchi <che si inventano di tutto per non spendere>, cuce due bei personaggi addosso a Greta Gerwig (musa e co-sceneggiatrice del regista) e a Lola Kirke (che al supermercato, indecisa su che pasta prendere, sceglie la Barilla...), bravissime nel restituire sentimento e insuccesso di due generazioni che (come tutti) faticano a capire qual è il loro posto nel mondo.

Read More