Ore 15:17: sul treno della vita Clint chiude la trilogia dell'eroe
C'è un'idea folle e coraggiosa in questo film, che è anche, tra i non pochi difetti, la cosa più riuscita, la scommessa vinta, il marchio di fabbrica della nuova prova di un autore-patriarca che, a 87 anni compiuti, sembra quasi dirci: <Guardate, non ho barato, non mento, non faccio finta>. Un'idea, che in questi tempi fasulli e taroccati, corrotti da bufale e fake news, mette i brividi: usare come interpreti principali i veri (e normalissimi) protagonisti della storia, fargli rivivere e replicare sullo schermo (a loro che sono tutto tranne che attori) le proprie gesta, il loro vissuto. A costo di esaltarne l'assoluta, banalissima, normalità, i tanti, piccoli o maldestri, fallimenti, la comune mediocrità. Protesi tutto il film verso quel momento, unico e irripetibile, in cui potere finalmente fare la differenza, trovare un proprio posto e un proprio scopo, essere all'altezza delle proprie aspirazioni. Come se tutto il resto, gli sbagli e i sorrisi, le delusioni e le rivincite, avesse un senso e fosse propedeutico solo per quell'istante, per quella manciata di, interminabili, secondi.
Rilegge ancora la storia più recente, inseguendo senza paura la scelta etica della verità, Clint Eastwood che con <Ore 15:17-Attacco al treno> chiude la sua trilogia dell'eroe (iniziata con <American sniper e proseguita con <Sully>), celebrando, nell'epoca dell'inerzia e della paura, il dovere di agire, quel <bisogna fare qualcosa> che più che a Trump appartiene alla sua stessa filosofia di cinema.
A mettersi in gioco, rischiando la vita e salvandone molte altre, questa volta sono Spencer, Alek e Anthony, tre amici da sempre che, alla loro prima vacanza in Europa, si ritrovano su un treno diretto a Parigi durante un attacco terroristico. Trasformandosi, nel momento del pericolo più estremo, nello strumento del destino (e del Signore): perché <è solo dando che si riceve>...
Dio, patria, esercito, famiglia: camminando sulle tracce imperscrutabili del caso (o della prova, forse, di un disegno superiore), il vecchio Clint inframmezza di flashback la parabola dei suoi eroi <ordinari>, abbondando però in retorica e rischiando di fare deragliare il film durante il viaggio in Europa (specie nella tappa italiana), quando la zavorra di stereotipi turistici che non aggiungono nulla all'economia della storia sembra portare regista e spettatori fuori dai binari. L'elogio dell'uomo comune capace di imprese straordinarie è gestito con assai meno equilibrio rispetto alle ultime prove dell'iconico regista e se la parte ambientata sul treno funziona molto bene altre volte <Ore 15:17> si incarta, si ingolfa, perde in tensione, preferendo soluzioni più dirette (ma anche più elementari) a una maggiore astrazione. Peccato, perché Eastwood, orgogliosamente dalla parte di chi non resta seduto a guardare, ci crede ancora tanto: ma forse stavolta siamo noi a crederci un po' meno.