Van Gogh, l'uomo che diceva "io sono i miei dipinti"
Aveva le scarpe rotte e le calze bucate e si lavava raramente: ma davanti a un paesaggio piatto sapeva riconoscere l'eternità. Il cinema mette nuovamente in cornice (nei quattro angoli di una tela-schermo) Vincent Van Gogh, l'uomo che diceva <io sono i miei dipinti>. E nel cercare di vedere quello che gli altri non vedono (non è forse anche la missione del regista?) rivive ancora in un film, inseguendo un'idea che duri per sempre. A costo di pagare il talento con l'emarginazione, di scontare la <maledizione> del suo genio con l'incomprensione. Rassegnato ma consapevole che - come un Cristo in croce - solo più avanti sarebbe stato davvero capito.
Al riparo dalle pozzanghere scivolose del biopic più tradizionale, <Van Gogh-sulla soglia dell’eternità> cerca, con macchina a mano, primissimi piani e un montaggio a tratti febbrile, l'uomo prima del mito: non sfugge il mood un po' modaiolo dell'operazione, ma il film del regista pittore Julian Schnabel - sulla carta rischioso -, non esce comunque sconfitto dal pregiudizio.
Puntuale in alcuni dettagli, il film si prende per altri versi delle libertà dalla storia ufficiale: negando ad esempio che il grande pittore (l’arma, in effetti, non fu mai ritrovata) si sia suicidato. Ma più che attenersi con precisione alla vita documentata di Van Gogh, a Schnabel (che aveva già cantato le gesta di Basquiat) interessa riflettere sul significato dell’essere artista, sul tormento che scava in una dimensione interiore difficile, praticamente impossibile - se non attraverso le proprie opere - da comunicare all’esterno: sulla sofferenza (e sulla solitudine) insita nel genio, ma anche sulla sua capacità di avvicinarsi alla luce. Una tensione emotiva, un approccio ideale, a cui dà corpo, con un’interpretazione dolorosa, uno scavato Willem Dafoe, che dopo la Coppa Volpi vinta a Venezia e la candidatura al Golden Globe sta rincorrendo (32 anni dopo <Platoon>) la quarta nomination all’Oscar.