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I dieci film più belli del 2023

Sì, è vero: sono parecchio in ritardo. Ma mi ci metto come al solito: i migliori film del 2023? Eccoli qui: di testa, ma soprattutto di pancia.

  1. Oppenheimer

    Il fascino della bomba, l’inferno dell’etica: scienza e Dio, individuo e potere. La sala trema, accecata dal bagliore. Il baratro e la vertigine. Come il temporale, prima del temporale.

  2. Killers of the Flower Moon

    Un epico scontro tra civiltà nell’America che cambia per non cambiare mai: Scorsese dissotterra l’ascia di guerra e gira un film implacabile, una ballata amara per lupi feroci.

  3. As bestas

    Sul podio, sì: perché è un film che non ti lascia stare, che ti sta addosso, ti perseguita. Un film che non sa darsi pace, né requie. E perché pochi raccontano l’uomo meglio di Sorogoyan.

  4. Anatomia di una caduta

    L’incipit più bello del 2023: la musica a palla, l’intervista che non si riesce a fare, i nervi che saltano, il disagio: e poi, il dubbio. Sepolto sotto una coltre di neve.

  5. Gli spiriti dell’isola

    Per il suo modo di essere spiazzante, originale, paradossale: mentre i fratelli sulla costa perdono la testa, la guerra è già dentro di noi. C i sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere.

  6. Close

    Una grande amicizia, il rifiuto, la tragedia: un film che fa stare male e va in cerca di un pianto liberatorio. Un film commovente, poetico, sincero: ad alta sensibilità.

  7. Io Capitano

    No, non siamo tutti sulla stessa barca: ma su quella di Matteo conviene sempre salire. Perché sa cos’è l’empatia e l’umanità: e conosce lo sguardo incontaminato della gioventù.

  8. Decision to leave

    L’amore? E’ il crimine perfetto. Tra thriller e melò, un poliziesco sentimentale audace, raffinato e seducente: regia (premiata a Cannes) stilisticamente splendida.

  9. Il sol dell’avvenire

    Potrà non piacere, ma come si fa a non volere bene a un film così? Nanni all’ennesima, ancora in marcia: toccante, anche fragile, ma mai autoassolutorio.

  10. Foglie al vento

    Per l’amore, nonostante tutto: che è più forte della rassegnazione, del freddo, di tutto il resto. E perché c’è ancora strada da fare, mano nella mano e con un cane di nome Chaplin.

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Avatar, io ti vedo: la via del successo

«La felicità è semplice». Anche se passeggera. Forse è proprio lì, in quella prima frase, quando stai ancora cercando di regolare la poltrona reclinabile, il segreto. E' lì la spinta che ti fa zittire Siri e Alexa, uscire dalle invadenti piattaforme, dimenticarti persino dello smartphone: e indossare occhiali 3 D che credevi già reperto archeologico per immergerti per oltre tre ore nel liquido amniotico della meraviglia. Là, nell'abisso per nulla quieto dove un altro mondo (e un altro modo) è possibile: ma che ha senso e innesco solo - ed esclusivamente - in quella scatola magica che chiami sala, in quella casa-chiesa dove il rito diventa esperienza, visione, frontiera.

E allora sì, «io ti vedo»: in quel kolossal ibrido e eco-pacifista, tribale, avventuroso e ribelle che celebra un universo meticcio e inclusivo c'è il (pro)fondo di un luogo segreto dove battono i cuori. Ancora. Insieme. Perché non si può non riconoscere al sequel, atteso e tardivo, del film che ha incassato di più di tutti nella storia del cinema, il fascino del pezzo unico, la suggestione - gigante - di un oggetto che per quanto reiterato resta irripetibile: un sogno monstre, sbalorditivo dal punto di vista tecnico (e tecnologico), che James Cameron, affinché possa stare a galla fa tuffare in 3 milioni e mezzo di litri d'acqua, quelli della grande piscina dove la pellicola è stata girata, o per meglio dire concepita.

Spettacolare e iperconnesso (con la natura, col mondo...), «Avatar-La via dell'acqua» riannoda i fili (e le code...) riassumendo rapidamente i tredici anni trascorsi dall'originale: Jake Sully, il caporale che si schierò con i nativi guidandone la resistenza vive come capo dell'Omaticaya su Pandora con la sua compagna Neytiri. I due hanno avuto tre figli, un'altra l'hanno adottata e si occupano anche di un ragazzo umano. Una grande famiglia minacciata però nuovamente dalla guerra. E dalla vendetta. Da qui la decisione di abbandonare la foresta chiedendo ospitalità al clan della barriera corallina, dove è la legge del mare a comandare...

Spirituale, next age, molto attento alle rivendicazioni care agli adolescenti di oggi (il tema dell'identità, il rapporto tra genitori e figli che spesso non si sentono all'altezza gli uni degli altri, la forte spinta e convinzione ambientalista), in «Avatar 2» il moderno misticismo ecologista incontra la terrena forza (ultra) familista (che è il perno morale dell'intera pellicola): Cameron, messa al bando la logica della sopraffazione e del profitto di un'umanità già morta che però (in un rapace e incontrollato desiderio di eternità) non vuole morire mai, fa del suo kolossal un film sull'incontro e sulla comprensione. E allora ecco, in un 3 D subacqueo funzionale alla creazione di un mondo costruito sulla «profondità», gli echi (come nel primo episodio) delle guerre indiane, del Vietnam, persino dell'invasione russa in Ucraina, di «Atto di forza» o (autocitazione non da poco) di «Titanic»; sacrificio, autoesilio, lutto, rinascita, ricordo, espiazione, scelta: gli occhi hanno la meglio sulla narrazione, lo sguardo è sempre più appagato del cervello. Ma il regista di «Terminator», che della saga di Pandora ha già in agenda i capitoli 3, 4 e 5, riesce anche stavolta nel miracolo di girare un blockbuster senza rinunciare alle pretese d'autorialità, qualcosa che sta, per capirci, tra Leibniz e il milk shake. Il risultato è potente anche se, con tutta onestà, devo ammettere che mi hanno interessato ed intrigato di più i due minuti del trailer di «Oppenheimer» di Nolan (esce a luglio, calma) che i 192 di questo secondo «Avatar».

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Tenet, Nolan scocca la freccia del tempo

E' un film cannibale, «Tenet»: perché si nutre del suo stesso io cinematografico, si spezza, si riavvolge e si divora per riformarsi di nuovo, e di nuovo: e rivedersi un giorno - questo - migliore, più giusto, per quanto sempre - proprio come il mondo - imperfetto. Là dove il futuro vuole «mangiarsi» il passato e forse non a torto (perché sì, «siamo colpevoli»), l'eterno rewind di chi sogna di riscrivere la storia: anche quella che non è stata ancora scritta. Come un salto mortale all'indietro prima del virus, prima di tutto: quando entrare in un cinema al chiuso era pura gioia e non anche distanziamento e prudenza. E già, «viviamo in un mondo crepuscolare»: e da questa o dall'altra parte dello schermo - Nolan l'aveva capito da un pezzo- «il problema è uscirne vivi». Ma al grande manipolatore inglese, al geniale maestro della reversibilità (a caccia dell'ennesimo «prestige») non interessa tanto salvare il mondo (qualcuno, tanto, lo farà per lui) quanto piegare il cinema alla sua ossessione (e viceversa), interrogandosi, ancora una volta, sul peso del tempo. E sul suo inganno, sulla sua natura, sul suo corpo molle, sulla sua misura, sulla sua, pur sacra, vulnerabilità. Spettacolare, contorto (sino al giramento di testa) e coinvolgente, l'ultimo, attesissimo, film del regista di «Dunkirk» è un blockbuster d'autore che non dà tregua (pochissimi come Nolan riescono a dare credibilità alla riflessione alta e altissima senza per questo tradire le regole dell'intrattenimento, nel suo caso sempre di livello siderale), un raffinato meccanismo di vasi (e dimensioni temporali) comunicanti dove un incipit a mille all'ora ti fa persino dimenticare che dovrai indossare la mascherina tutto il tempo. Poco male perché ci si diverte davvero, anche se l'intreccio si complica a tal punto da seguire alla lettera il consiglio che danno al protagonista: «Non cercare di capire». Lui, la spia che ci amava, cerca di sventare il piano distruttivo di un oligarca russo che ha per le mani una scoperta clamorosa: un modo per invertire il corso naturale del tempo... Il quadrato magico del Sator, l'entropia (che forse è il metro del disordine), chi sa troppo e chi (il protagonista per buona parte del film, lo spettatore anche dopo che si accendono le luci) troppo poco: elevata la spy story a concetto filosofico, Nolan gioca col Bond movie (quel mix di cotè internazionale - il film visita 7 Paesi diversi tra cui l'Italia -, azione e ironia), inseguendo però, tra gli azzurri ghiaccio della fotografia e una traccia sonora tesissima e stridente, approdi più fondi. Nel palindromo infernale dell'ennesimo rebus la freccia del tempo punta all'indietro: tecnicamente esaltante, forte di un cast molto ben assemblato (efficace il protagonista John David Washington, lanciatissimo figlio di Denzel, mai così in parte Robert Pattinson e interessante Elizabeth Debicki, vista in «Widows»), «Tenet», seppure non sempre inedito come vorrebbe (l'incontro con se stesso...), è un film audace, anche se, a conti fatti, meno suggestivo di «Inception». Ma se tutti sulla carta diciamo di essere pronti a entrare nell'edificio in fiamme, quando il fuoco rischia davvero di bruciarci, sono solo quelli come Nolan a farsi largo nel fumo.

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2018 Filiberto Molossi 2018 Filiberto Molossi

2001:Odissea nello spazio torna al cinema: e 50 anni dopo è sempre nel futuro

La ragione per cui adoro <2001> è che mi frega sempre. Con l’Odissea di Kubrick è così: non si può vincere. Perché non è simile (nemmeno lontanamente) a nulla che puoi vedere adesso. Ma nemmeno a niente di quello che hai già visto prima. Perché, nonostante sia uscito la prima volta nelle sale 50 anni fa,  non appartiene al passato né tantomeno (nonostante ieri e oggi sia  tornata nella versione restaurata e rimasterizzata, nei cinema) al presente:  <2001: Odissea nello spazio> appartiene solo al futuro. Là da dove proviene, là dove, costantemente, insistentemente, sembra sempre proiettarsi, rivolgersi. Come se fosse un film che non è ancora stato fatto: un film che non esiste, se non nel ricordo sbiadito di qualcosa che non è mai accaduto. Come e più di <Shining>, <2001> ha su di noi un potere oscuro, un potere mistico, segreto: qualcosa che va al di là di una carica ipnotica inspiegabile eppure evidente sin dalle primissime sequenze, che va oltre a un prologo grandioso, a un finale <irraggiungibile>. <2001> non è solo il film più audace di Stanley Kubrick, ma probabilmente anche quello più moderno. Moderno, e tuttora inedito se mai è possibile in quanto imitatissimo (ma inimitabile), nella struttura del racconto, nella scelta dell'inquadratura, nel rivoluzionario sguardo sinfonico con cui il geniale regista riscrive le regole del genere: girando, un anno prima che l'uomo sbarchi sulla Luna (ma c'è una famosa e assurda tesi complottista che dice che in realtà fu proprio Kubrick a girare il falso allunaggio...), <il film definitivo di fantascienza>.

Un capolavoro assoluto che non anticipa una nuova visione: ma semplicemente la crea. Il regista sapeva che non esistevano lenti e macchine in grado di imprimere sulla pellicola i suoi concetti visionari: e così, invece di accontentarsi di ciò che la tecnica proponeva in quel momento, fece in modo che venissero prodotte appositamente per il film. Inventò cioè gli strumenti che potessero rendere possibile e tangibile il suo pensiero: che potessero dare forma a quella idea di cinema che nessuna macchina da presa era allora capace di <imprigionare>. Ha ragione Christopher Nolan, il grande autore di <Interstellar> e <Dunkirk>, che lo scorso mese ha presentato la versione rimessa a lucido di  <2001> al Festival di Cannes: <Questo è un film che ha cambiato il cinema e spalancato una finestra per tutti i registi che sarebbero venuti dopo. Perché in fondo i limiti non sono reali, esiste soltanto la nostra immaginazione>.

E' dannatamente vero: preso in prestito un raccontino poco conosciuto  dello scrittore inglese Arthur C. Clarke – che dopo ogni seduta di sceneggiatura con il regista newyorchese doveva andare a stendersi

perché gli girava vorticosamente la testa -, Kubrick lo trasforma in un oggetto cinematografico irripetibile: un'esperienza visiva, che, sono parole sue,  capace di  penetrare col suo contenuto emozionale e filosofico il subconscio dello spettatore. L'osso scagliato in cielo dalla scimmia diventa astronave, l'uomo supera lo stadio <bestiale> grazie alla tecnologia, ma progredisce (e si fa superuomo) solo liberandosi di essa, affrontando il computer ammutinato per spegnerlo, per <ucciderlo>. Quello che in Clarke  era semplicemente una lotta uomo/macchina – ma lo scrittore negò che il nome del computer di bordo, Hal 9000, fosse una malevola citazione (che lettere ci sono nell'alfabeto dopo l'acca, la a e la elle?) della Ibm -, con Kubrick diventa saggio filosofico sull'evoluzione, su Dio, sul mistero. Il famoso monolite nero – alieno e non identificato – che è alla base del film altro non è che lo stesso regista, il suo carisma, il suo impenetrabile talento. Lo stesso che lo convince ad affidare le musiche della pellicola ad Alex North (il compositore di <Spartacus>) e poi a non utilizzarne nemmeno una nota: a forza di chiedergli <qualcosa di classico> Kubrick decise di servirsi di musica già esistente. Strauss, ad esempio: nacque così, il valzer delle astronavi, una delle sequenze più affascinanti di tutti i tempi. Aneddoti che sono leggende: e che ora che l'attore protagonista, Keir Dullea, assomiglia davvero a quel se stesso vecchio che incontra nel film, accompagnano con nuova profondità l'angoscia di un computer umano troppo umano che nel giro girotondo di una filastrocca mandata a memoria ha ancora il tempo di ammettere di avere paura di morire.

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2017, Recensione Filiberto Molossi 2017, Recensione Filiberto Molossi

Dunkirk, la Storia siamo noi

E' girato interamente in pellicola (sì, quella che nessuno usa più), in 65 millimetri, nel formato Imax (alla massima risoluzione) con 1.500 comparse e oltre 60 navi vere, in spazio aperto, dove anche la Storia, per quanto sia di per sé già enorme, monumentale, diventa subito epopea, epica, esempio. E' pensato in grande, eppure (per contrasto geniale tra spirito e concezione) è un film intrappolato, chiuso, messo all'angolo: prigioniero di una passerella che porta al nulla, stretto nell'abitacolo scomodo di un aereo, nascosto nella pancia di metallo di navi squarciate dal sibilo dei siluri. In quel preciso, maledetto, momento: che è adesso, che è sempre. Perché sia chiaro, nessuno si chiami fuori: siamo tutti lì, uno accanto all'altro, su quel pontile. Ad aspettare un miracolo, un segno, una svolta. Umanità indifesa, col nemico alle spalle e il mare di fronte: nella grande attualità di naufragi, nell'incertezza di un'esistenza perennemente minacciata e comunque esile, fragile, appesa. Là dove si è eroi anche senza indossare una divisa: perché <non possiamo sottrarci: abbiamo un lavoro da fare>.

E' il 1940: 400.000 soldati per lo più inglesi si ritrovano inchiodati sulla spiaggia di Dunkerque, in Francia. Casa è appena al di là dell'orizzonte, ma sotto il fuoco dei nazisti sembra irraggiungibile. C'è un'unica speranza: una clamorosa evacuazione via mare con l'aiuto delle imbarcazioni civili...

Terra, acqua, cielo: diviso in tre movimenti, su tre piani e condotto attraverso tre storie contigue e contemporanee, destinate (in una gestione affascinante della relatività dello spazio e del tempo tipica del maestro di <Inception> e <Interstellar>) a incontrarsi, <Dunkirk>, il bellissimo film di Christopher Nolan che di fatto apre la stagione cinematografica 2017-2018, batte sempre e solo su una nota, quella dell'angoscia (martellante e implacabile la colonna sonora di Hans Zimmer), alzando il volume dell'ansia nel mondo in cui nessuno è più al sicuro, dove tutto e tutti sono un bersaglio sotto il tiro di un nemico invisibile, senza faccia. Paura, altruismo, tragedia, caos, morte, coraggio, orgoglio, vergogna: nel cinema di Nolan non c'è posto per i vincitori, non si fanno prigionieri. Ma non c'è disonore in una fuga che, sulla via del ritorno, trasforma (come in <Apollo 13>) un fallimento in un successo. Il resto è sabbia, dolore, vento: quello che sferza i volti di un grande cast (da Kenneth Branagh a Mark Rylance e Cillian Murphy, passando per il <deb> Harry Stiles degli One Direction e dal migliore di tutti, Tom Hardy, che recita solo con gli occhi), chiamato a dare conto del meglio e del peggio dell'umanità.

Dedicato <ai nostri figli e nipoti ancora ostaggi di un mondo tra estremismi e barriere>, <Dunkirk>, spettacolare e potente sin dalle prime sequenze, scappa ma non retrocede, subisce ma non si arrende. Per una volta, <sopravvivere è abbastanza>. Anzi, è tutto: l'unico modo per ricominciare, resistere, provare a credere ancora in un domani. Che possa spazzare via l'odio di ieri ma cancellare anche le inquietudini e i tormenti dell'oggi.

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