Civiltà perduta: l'El Dorado di James Gray, esploratore ai confini del mondo
Era un uomo <con la mente aperta a qualsiasi eventualità>: eroico visionario, amico dei cannibali e degli uomini liberi, figlio di un padre il cui (non tanto buon) nome desiderava riscattare e padre di figli che a ogni ritorno stentavano a riconoscerlo, soldato di sua maestà dalla mira infallibile, esploratore di un mondo oltre i confini del mondo, di quell'universo misterioso e segreto che resta fuori dalle mappe, dalle cartine, persino dalla logica. Perché, in fondo, se non vai oltre a ciò che puoi afferrare che vivi a fare?
Se lo sarà chiesto un milione di volte – o forse una sola – Percy Fawcett, leggendario protagonista del secolo scorso, alle cui spedizioni senza precedenti (che dopo avere riscritto la geografia rischiarono di riscrivere anche la storia) un regista sensibile come James Gray ha dedicato <Civiltà perduta>, filmone virile e avventuroso sin troppo vecchio stile (alla David Lean, a tratti, ma senza la sua profondità di campo), eppure pervaso, scosso, dalla febbre dell'ossessione, con un certo fascino in quel suo sfinito perdersi, nel senso della scoperta, nell'arrivare lì dove nessuno prima di allora è mai stato.
Fawcett divenne famoso nei primi anni del '900 per le sue epiche spedizioni tra Brasile e Bolivia, in particolare per avere raccolto tracce dell'esistenza di un'antichissima popolazione progredita. Custode di una città che l'esploratore, non smettendo mai di cercarla, ribattezzò Z: un altro nome, forse, per dare un volto al mito di El Dorado...
Tra echi di <Fitzcarraldo> e <Aguirre> (ma anche di <Apocalypse now>), Gray risale il rio Don Diego (il film è stato girato in Colombia) per fare della sfida per la gloria anche l'affermazione, rivoluzionaria per l'epoca, dell'uguaglianza tra gli uomini tutti (e tra uomini e donne...), tradendo, in un invito alla comprensione degli altri che va al di là della lezioncina sul <buon selvaggio> come dell'arroganza di chi pensa di essere l'unico depositario della civiltà, una vocazione attuale e politica. E' il segno non superficiale di una pellicola che, per essersi messa in viaggio alla ricerca del significato dell'ignoto e del grandioso, avrebbe dovuto essere onestamente più fonda e avvincente, ma in cui si respira, con polmoni liberi da preconcetti, la nostalgia di un mondo ancora tutto da capire, da decifrare, molto prima di trip advisor e del navigatore satellitare...
Regista prettamente metropolitano che ultimamente ha allargato, con esiti disuguali, i suoi orizzonti (anche cinematografici), Gray dà una bella opportunità di mettersi in mostra a Charlie Hunnam, eletto a protagonista dopo il <no, grazie> di Brad Pitt (che ha prodotto però il film) e l'abbandono del progetto da parte di Benedict Cumberbatch, confermando anche la crescita (già certificata all'ultimo Festival di Cannes) di Robert Pattinson. Portando infine nella giungla, quasi come un talismano, anche un ex ragazzo del Pablo: il nostro Franco Nero.