Te l'avevo detto: la Roma sudata, grottesca e a perdere di Ginevra Elkann
«Perché non riesci a essere normale?».
In una Roma a cui manca l'aria, assolatissima e sudata, tossica come le relazioni che la consumano, un film bulimico e impietoso, grottesco e corale: giostra (dis)umana popolata da personaggi schiavi delle loro dipendenze, schiacciati dalle proprie debolezze, irrisi da un torrido presente di metaforica e polverosa canicola. Ognuno alle prese col suo vuoto (a perdere), la solitudine, il disagio, gli «eroi», eccentrici e dolenti, persi e feriti, dimenticati e paranoici, di Ginevra Elkann: che, al secondo film, senza abbandonare il tema forte della disfunzionalità parentale (madri e figlie, fratelli e sorelle, mogli e - ex - mariti) mira stavolta, dopo l'esordio garbato e semiautobiografico di «Magari», all'affresco, pungente e amaro, di una società decadente e decaduta a cui anche il riscaldamento globale sembra voglia fare scontare i suoi peccati.
Immerso in una fotografia caldissima e coinvolgente, tutta virata all'ocra, «Te l'avevo detto» punta al ritratto d'insieme ma pur trovando nelle sue short stories una personale tenerezza fatica a renderci partecipi, pagando in modo pesante l'approdo sugli schermi dopo «Siccità» di Virzì, a cui è per molti versi assimilabile.
Maledetta primavera, l'avventura di crescere tra paura e desiderio
Ha l'impaccio di giorni strani e la malinconia di quelli perduti, «Maledetta primavera», romanzo di formazione a tempo di lambada in quei fine anni '80 un po' sbiaditi, dove crescere resta un'avventura, tra disagio e desiderio, periferia e nuovi inizi. Debutto semiautobiografico nella fiction della documentarista (è quella del biopic sulla Ferragni) Elisa Amoruso (che dopo i titoli di coda fa scorrere i super 8 della sua famiglia, a cui l'opera prima è dedicata), un film piccolo e complice che lavora sulla potenza (e sulla trasfigurazione) del ricordo, nel solco di un «what if» che più che risposte cerca lo sguardo d'allora, gli occhi liberi da sovrastrutture di chi non ha ancora fatto i conti con i propri sogni né con la propria, solo accennata, ancora tutta da costruire, identità. Nell'educazione sentimentale di Nina, ragazzina -strappata dal suo quartiere bon ton da una madre che non ci sta più dentro e da un padre simpatico e inaffidabile che ha fatto dell'arte di arrangiarsi una ragione di vita - che si scopre attratta da Sirley, una bellissima e ribelle compagna di scuola della Guyana francese, riecheggiano certe atmosfere minimali di un cinema sensibile e pre-adolescenziale («Magari» della Elkann, ma anche la Sciamma), vaghe tracce del naturalismo della Rohrwacher, il mood, molto riconoscibile, di Virzì: la regista paga il prezzo dell'esordio non riuscendo a evitare le trappole dei (non pochi) cliché (il luna park, il bagno in mare, la famiglia che canta in auto...), ma sa sublimare l'incontro tra due modi differenti di essere sole, l'abbraccio tenero ancora prima che sensuale tra due ragazzine «straniere» in un mondo in cui non si riconoscono. Palazzoni e palazzacci, la Dea colore amaranto, le sigarette all'intervallo, le festine delle medie, I like Chopin, obbligo o verità: l'Amoruso parte da quello che conosce meglio, dà un peso e una forma a una memoria emotiva, sentimentale, provando ad avventurarsi fuori dai confini del già visto grazie al personaggio di Sirley, che ha una sua libertà rivoluzionaria e dirompente, l'esotismo (e l'erotismo) di un momento sospeso e magico. Quello che contribuiscono a rendere nitido le convincenti prove degli interpreti: a fuoco gli adulti (Micaela Ramazzotti, costretta a trovare nuove sfumature di un ruolo che è sempre quello, ma soprattutto Giampaolo Morelli, molto in palla), scelte bene, in modo non banale - anche fisicamente - le ragazzine.
Magari, ritratto di famiglia con bassotto
L'età della scoperta, il crescere smozzicato e «un motivo che scricchiola in mezzo ai denti»: ritratto di famiglia con bassotto, virato al colore delle fotografie ingiallite, quelle che avevi dimenticato anche che esistessero e poi un giorno saltano fuori da un cassetto che non pensavi avresti mai più riaperto. C'è un po' del cinema di Valeria Bruni Tedeschi, «Sarà perché ti amo» e più di qualcosa di sè in «Magari», debutto semiautobiografico di Ginevra Elkann (sorella minore - togliamoci il dente subito - di John e Lapo), autrice sensibile che prende per mano il ricordo di un'infanzia sradicata, con troppi padri (che è come non averne nessuno), scombinata senza colpa (che è un attimo che ti ritrovi al mare con i Moon Boot ai piedi) per rimettere al centro di tutto chi di solito viene lasciato ai margini, i ragazzini. Ancora i bambini protagonisti - come in «Favolacce» (la cui contemporaneità dell'uscita non favorisce la 40enne regista) - nel cinema italiano, qualcosa di più di una semplice coincidenza: come se solo loro, e non noi, fossero in grado di raccontare con la necessaria onestà l'altro mondo, quello degli adulti, nella maggior parte dei casi (e pure con il beneficio del dubbio) caotici, cialtroni, vigliacchi, volubili, immaturi. Alma (sguardo e voce del film che ha inaugurato l'anno scorso il Festival di Locarno) ha 9 anni e con i suoi fratelli più grandi - in procinto di lasciare con la madre incinta e il suo nuovo compagno Parigi per il Canada -, si ritrova a trascorrere le vacanze invernali col padre, un regista italiano che non vede da un anno ma che spera ancora che un giorno possa rimettersi con mamma... Nell'ostinata ricerca di una normalità perduta, o addirittura negata, in quel scoprirsi più che speciali diversi, la Elkann gira un film molto borghese, ma garbato, onesto, tenero, spontaneo. Poi è vero: nonostante la regista diriga molto bene i tre giovani protagonisti (tutti esordienti come lei), sorretti e coadiuvati dai navigati Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, «Magari» resta un po' lì, sulla soglia dell'«anche i ricchi piangono», fatica a fare un salto in avanti, a liberarsi da codici narrativi abituali, comodi, Ma a forza di guardarsi indietro bisognerebbe essere bionici per non sentire la stretta e il lascito di quella maledetta malinconia.