2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2019, Festival, Recensione Filiberto Molossi

La paranza dei bambini: vorace e autentico, alla faccia di chi ci vuole male

C'è una cosa molto bella, tra le tante, ne <La paranza dei bambini>: che il passato non esiste e il futuro nemmeno. E' tutto declinato al presente, oggi, adesso, subito. Alle spalle c'è ancora troppo poco per potersi tatuare, da qualche parte, un ricordo: e davanti non c'è nulla, se non una strada che non porta da nessuna parte, promesse che non si possono mantenere e vite da bruciare in fretta. E' un film così, quello di Claudio Giovannesi: si carica sulle spalle il destino dei vuoti a perdere, di chi le cose non riesce mai a cambiarle davvero. Autentico e sincero, vorace e perduto: Rolex al polso e le Nike ai piedi. E i selfie con la pistola in pugno. Che un giorno pianti una pallottola in pancia a un infame e il giorno dopo litighi col fratello più piccolo perché ti ha rubato la crostatina...

C'è violenza, ma anche tenerezza e molta ingenuità nei protagonisti della banda che Giovannesi accompagna sullo schermo dalle pagine di Saviano: ragazzini di 15 anni o giù di lì, adolescenti che sognano la svolta, il giro grosso. Affascinati, nella Napoli di Gomorra, dalle armi e dalle t-shirt col logo in vista: e che, alla prima occasione, cercano di prendersi il quartiere. Perché coi soldi ci compri tutto: il tavolo riservato in discoteca e lo specchio dorato. Alla faccia di chi gli vuole male, alla faccia di chi neanche li considera.

Sempre in movimento (quelle corse sugli scooter, in due e senza casco, nella babele di vicoli-labirinto), molto fisico (i baci, gli abbracci, la vicinanza di un gruppo che è famiglia più che branco), <affamato>, <La paranza dei bambini>, unico italiano in concorso al Festival di Berlino (dove è stato accolto benissimo), ha un orgoglio, una fierezza quasi primitiva, nel raccontare l'educazione criminale di una generazione senza speranza. Quella a cui Giovannesi – una spiccata sensiibilità e un interesse sincero (come ha dimostrato nelle ottime prove precedenti, <Alì ha gli occhi azzurri> e <Fiore>) per i giovanissimi e gli esclusi – restituisce una voce e uno sguardo e sta addosso dall'inizio alla fine, stretto sui volti e sulle nuche. Per girare un film sulla perdita dell'innocenza (di uno e di tutti), là dove la guerra sembra un gioco ma lascia per terra morti veri. E nelle scelte senza ritorno di chi scelta non ha (bello il finale troncato, quasi un <Mucchio selvaggio> svuotato di epica), <La paranza dei bambini> trova la sua cifra, la sua liturgia: affondando gli artigli in un'autenticità (gli interpreti, pescati tra le strade del Rione Sanità, sono tutti alla prima esperienza cinematografica) non corrotta. Come gli occhi fondi del protagonista Francesco Di Napoli, scelto benissimo: adulto-bambino che questa storia se la porta scritta in faccia. Sulle rughe che ancora non ha.

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2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Addio fottuti musi verdi: The Jackal, il cinema è un pianeta proibito

E’ un’operazione ambiziosa ma poco riuscita quella che segna lo sbarco al cinema dei The Jackal, il gruppo di youtubers napoletani (da milioni di follower) diventati famosi in tutta Italia con i video-parodia di «Gomorra». Quelli sì esilaranti, a differenza della fantacommedia «Addio fottuti musi verdi» che forse vorrebbe essere la risposta partenopea, con presupposti ed esiti diversi, al «caso Jeeg». Peccato però che la storia di un precario a vita e bamboccione senza rimedio che viene – incredibilmente - assunto come grafico dagli extraterrestri, non strappi, se non raramente, grandi risate. Non si va al di là, insomma, di alcune chicche molto divertenti come la partecipazione autoironica di Gigi D’Alessio (alieno innamorato della Terra) e di battute (il tg che annuncia che la Juve deve restituire 30 scudetti...) che chiamano l’applauso: poco però se confrontato a tormentoni che non decollano mai e a una noiosa rappresentazione del riscatto galattico del disoccupato figlio delle stelle. Per quanto pensato come film e non come collezione di gag e girato con buona professionalità (da Francesco Ebbasta, al secolo Capaldo) a «Addio fottuti musi verdi» manca il ritmo e la scrittura della commedia: si forzano i luoghi comuni, ma il cinema resta un pianeta lontano. E proibito.

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Pioggia lurida su Roma: in Suburra il romanzo criminale di Mafia capitale

Piove su Roma, piove senza sosta, continuamente, incessantemente. Come un sottofondo che sfinisce di una nota sola, nella notte che sembra non dovere terminare mai. Piove, perché pare non possa fare altro, sulla città eterna, sulla capitale senza più morale, sui boss di periferia con vista mare, sui politici corrotti e arricchiti, sugli zingari cravattari che ora alzano la cresta. E' pioggia sporca, lurida, che non monda nessun peccato, forse perché a questo punto sono troppi: mentre un Papa si fa da parte e tutti gli altri vogliono invece essere al centro della scena. E reclamano un pezzo della torta, una fetta, una briciola almeno.

E' un film amaro, dissoluto e vendicativo, privo di un personaggio positivo, di un bagliore etico, del miraggio di un riscatto, <Suburra>, l'affresco in nero che Stefano Sollima (il regista di serie cult come <Romanzo criminale> e <Gomorra>) dedica a suo padre Sergio (quello di <Sandokan> e di diversi spaghetti western), tra mance troppo generose, mapping, mignotte, droga, esecuzioni fatte passare per incidenti, feste, mazzette, minacce, morti male o malissimo. Un quadro deprimente – e soprattutto decadente – figlio del libro profetico di Bonini e De Cataldo, capace di anticipare la recente vergogna di Mafia capitale, con la realtà che, come da copione, ha finito col superato la fantasia.

In ballo c'è una grossa speculazione sul litorale: hotel, casinò, ristoranti...Soldi, tanti soldi. Cosa nostra si muove affidandosi a un ex della Magliana, duro vero che tira i fili di una città che ormai persino lui fatica a riconoscere. Ma la morte di una prostituta porterà a conseguenze inimmaginabili anche per chi fa del crimine un mestiere e sfoggia con arroganza la sua (solo presunta) impunità.

Cupo, ritmatissimo, notturno, abbandonato, <Suburra> punta al ritratto d'insieme, ma fatica a farci amare o odiare veramente i personaggi in gioco, rivelando a tratti in modo scoperto (quell'esigenza di riassumere anche quello che non si è detto) la sua natura <telefilmica> (l'anno prossimo diventerà una serie per Netflix, l'Internet tv appena sbarcata in Italia); Sollima, che dai lavori che l'hanno reso famoso prende in prestito le tonalità, la medesima consistenza della <pasta> visiva, dimostra però, aggirandosi senza paura nel Far West metropolitano, di essere un regista vero (vedi la sparatoria nel supermercato: un momento di grande cinema di genere), energico, tosto. Capace di tenere testa anche a un gruppo di attori motivati. Tra cui brilla soprattutto la nuova stella di Alessandro Borghi: se in <Non essere cattivo> Marinelli rischiava di oscurarlo, qui è lui a suonarle a tutti.

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